11 APR 2022 TIME EXPERIENCE COMMERCIAL 

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“…M’affanno a dire che è dalla singola persona che si deve partire e non dalla società…”

“…Il Mondo, che ci si ostina a qualificare come capitalista invece di ammettere più onestamente che si tratta del mondo umano, così come si è sviluppato in senso antropologico-culturale (forse basterebbe dire biosociologico) - è una realtà dalla quale nessuna ideologia o religione può liberarci. Il suo destino è nel suo dna. Questo non ha impedito che dentro la sua cornice naturale persone e soggetti e apparati non abbiano tentato nel tempo e con alterne sorti operazioni volte a migliorare le condizioni umane seppure su basi e valori diverse…”

“..:Sappiamo tuttavia che tutti questi tentativi nell'arco della storia hanno essi stessi contribuito a rendere sempre più complesse le società senza tuttavia riuscire a impedire guerre, fame, morte, ingiustizie, violenze. La storia ci mostra il nostro futuro, il suo progredire dentro la morsa della dialettica. Dunque sarebbe ridicolo che io mi immaginassi di suggerire un andare oltre o tornare indietro rispetto a questo destino. Ciò che invece tento di immaginarmi è che le singole persone riescano a crearsi una spazio e tempo di educazione della propria coscienza sulla base di un solo principio: non fare soffrire l'altro da sé e se stesso…”.

“…Intendo la sofferenza della carne (la lama che la ferisce, l'arma che la uccide, la violenza che la mortifica ecc). Il nodo è per me nel fatto che la civilizzazione - di fronte alla sofferenza umana - non s'è più rinnovata dopo la formula weberiana sul rapporto tra vocazione e professione. Non vi colpisce la facilità con cui ogni persona tra noi riesca a rimuovere il dolore che i suoi obblighi sociali producono quale siano i loro fini? Ecco è da qui che si dovrebbe partire: un doppio binario, contemporaneamente alla nostra condizione di sudditi di noi stessi provare a valorizzare la nostra coscienza al fine di attutire la sofferenza che ogni nostra pratica sociale e professionale produce…”.

“…Intendo riferirmi al nodo cruciale su cui da qualche tempo mi provo a pensare e a dire (confusamente, lo so, ma la navigazione libera comporta non poche difficoltà). Conoscenza e politica (tanto per dirla in due sole parole) sono pratiche radicate nella società e dunque in rapporti di potere, in sistemi di potere, in cui la persona è assoggettata al ruolo che le viene dato non indipendentemente dai suoi bisogni/desideri ma a misura di quanto tali bisogni/desideri possono essere utili al sistema che la ospita…”.

“…La civilizzazione ha costretto la singola persona a sottostare alla dialettica tra una promessa di libertà individuale concretamente "impossibile" - irrealizzabile quale sia il regime sociale instaurato - e la promessa di una vita materiale "possibile" soltanto a patto di partecipare alle forme di potere che incarnano tale promessa. Ce n'è abbastanza per capire che la rivoluzione culturale alla quale mi riferisco comporta un radicale salto di prospettiva: non la persona versus la società ma la persona versus se stessa. Una prospettiva di lungo periodo…”.

“…Una forma di esperienza personale del mondo da far maturare dentro al mondo stesso così come si trascina storicamente, socialmente, sapienzialmente. Dei tanti spazi di educazione della persona di cui la società dispone a me pare che quello della scuola sia il luogo più adatto in quanto il più necessario. A dimostrare che sia questa l'unica via possibile per una emancipazione della persona dalla società, a me pare sia proprio il degrado culturale e sociale in cui la modernità presente ha gettato la scuola come matrice di ogni progressione formativa. La scuola, in virtù del suo primo impatto con il corpo e la carne delle singole persone, potrebbe garantire quella trasmutazione dei valori che la società attuale - avendo compiuto, prodotto e consumato per intero il proprio destino (ciò a cui s'è destinata sin dall'inizio) - non può pensare e praticare…”

 

Dunque per spiegarmi meglio rimando a qualcosa che ho scritto un paio almeno di anni fa: “Ma merito e efficienza possono essere davvero la vocazione della persona? Oppure, dinanzi a tutto il resto di sé che la obbliga e la interroga, al di sopra di tutto la persona invoca ed è invocata da ciò che più la spinge a fare soffrire e soffrire essa stessa. La verità del dolore psicofisico è l’unica verità che non può essere occultata nelle forme logiche e emotive dei linguaggi sociali.

Dalle loro etiche, estetiche e politiche. Non c’è ratio o desiderio che possa far tacere il dolore di una mano che affonda o viene fatta affondare nella brace. La conoscenza del dolore fisico gode di una massima semplicità per quanto complesse e motivate perfettamente dicibili, ne possano essere state le cause. Persino l’aggettivo semplice è già una qualificazione di troppo: si dice accecati dal dolore o dalla paura o dalla violenza proprio perché, in questi momenti senza più tempo misurabile, la carne  umana perde ogni coscienza di sé, sia essa falsa o vera.

Viene a mancare ogni misura, valore, in grado di deciderne il senso. Appunto: la grande disputa moderna tra vera e falsa coscienza dell’individuo, delle sue identità e dei suoi ruoli, delle religioni che professa, crolla nella sofferenza e nella morte come pratica umana, attiva e passiva che sia. Sofferenza e morte sono causa e effetto della natura umana. E’ il doppio vincolo che lega in una stessa necessità la vittima e il carnefice. Lo stato di necessità non è soltanto della singola persona ma della persona immersa nel mondo che la alimenta. Che le è prossimo: la persona è in condizione di perenne, inevitabile, prossimità con l’altro da sé.

“Ama  il Signore Iddio tuo con tutto il cuore e con tutta l’anima tua e con tutta la tua mente tua. Questo è il grande primo comandamento. Il secondo, simile ad esso, è : Ama il prossimo come te stesso (Matteo 22:37-39).

Il primo comandamento vincola a sé la persona la prende in consegna, così come pretende ogni sovranità celeste e terrena, ogni credenza e ideologia che della persona sappia la forza, e dunque ne valuti il capitale. Ma il secondo comandamento la getta nella prossimità, e la prossimità è quella sfera di sopravvivenza alla quale la persona non può sottrarsi a meno di non decidere di uccidere se stessa. E’ la prossima tra le persone, le cose e i luoghi a farsi tecnica. Le prime armi di attacco e difesa non sarebbero nate senza la prossimità costituita da un ambiente”

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Da Caverne pag. 58-61 (Alberto Abruzzese - Lessico della Comunicazione- a cura di Valeria Giordano)

L'immersione televisiva che ha caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento ha reso sempre più esile il margine tra l'esperienza della comunicazione e la vita stessa, che i linguaggi dei mass media avevano sembrato dividere e di fatto avevano a volte brutalmente separato. Tutto era già avvenuto quando, ancora alla fine dell’Ottocento, la luce riflessa del film si era accesa nel buio delle prime sale cinematografiche. C'è chi non si e accorto di questa centennale metamorfosi e l'ha accettata come si accettano le cose della natura e chi, pur trovandosi ugualmente a viverla sin dentro il proprio corpo, le resiste sino a sentirla come un’invasione aliena, nemica. Ma a fare da motore dello sviluppo delle forme espressive in cui abitiamo sono stati proprio questi impulsi a resistere ai processi di  artificializzazione dell’esperienza: un conflitto perenne tra chi crede di vedere e chi desidera vedere altro, costruire altri territori e dunque altri rapporti di forza.

Sempre, nel farsi progressivo delle civiltà, i mutamenti sociali e le innovazioni tecnologiche si sono manifestati nella forma anfibia del desiderio e della paura. Quest’avventura - che s'è intrecciata alla storia di un secolo terribile e insieme meraviglioso, ricco di morte quanto di emancipazione umana - può essere raccontata come un’avvicendarsi di luci e tenebre, teso - nel bene e nel male - a rendere visibile il mondo, a rischiararne identità e relazioni, persone e cose. Si pensi a quanto il cinema e la televisione abbiano dissipato le tenebre della mente costruendo infiniti mondi immaginari - oltre ogni barriera spazio-temporale e oltre la scrittura - eppure sempre più necessari ad avere il senso dei mondi cui apparteniamo e in cui ci riconosciamo. Si pensi al lavoro espansivo e intensivo che i media televisivi hanno compiuto, invadendo la notte come il tempo di lavoro, la sfera privata come la sfera pubblica.

Ora - dopo l`affermarsi dei linguaggi del computer – i processi di innovazione nel settore delle comunicazioni si stanno facendo talmente intensi da toccare i miti stessi della visibilità, del farsi degli individui nel mondo, da metterli in crisi alla prova del nostro presente, delle nuove sensibilità che vi stanno insorgendo, Sino a investire persino le grandi metafore originarie della “caverna”, proprio il mito che ha costituito il primo grande nucleo della riflessione occidentale sul rapporto tra corpi e immagine, realtà e finzione. E tanto altro ancora di profondo e istintuale: le energie primigenie della Terra e dunque del desiderio (Vulcano e Venere); il doppio regime notturno e diurno della comunità e quindi della morte e della vita (Orfeo ed Euridice); la linea d`ombra tra il ventre materno e il mondo esterno; i geni e mostri che abitano le oscure viscere della foresta e tuttavia alimentano i destini dell`uomo, proteggono eroi, forgiano metalli e incantesimi, custodiscono diamanti e segreti (si vedano in particolare le mitologie nordiche di cui v’è traccia nei paesaggi del primo Romanticismo e poi nelle illustrazioni di saghe e fiabe popolari, sino alle saghe post-moderne degli eroi del Gruppo Marvel, ma anche le immagini dovute al senso panico e primitivo delle culture mediterranee, là dove l’antro cavernoso delle montagne si trasforma nelle grotte fluorescenti del mare, nelle ombre di boschi riflesse ai bordi dell’acqua di fiume, tipico ingrediente dei flussi turistici dal Nord verso il Sud, dall’illimitato viaggiare oceanico al conforto comunitario del mare Mediterraneo).

La millenaria ricchezza simbolica che si e accumulata nel mito della caverna e stata assorbita dall’immaginario ottocentesco e dunque dallo spirito della civiltà industriale e della società di massa: il sottosuolo delle metropoli è stato identificato come il luogo generatore eppure rimosso dello sviluppo tecnologico cosi come dell`anima dilaniata dal dolore umano, dall’ingiustizia del potere, della falsità della ricchezza e delle leggi (dalla fabbrica sotterranea di Metropolis di Fritz Lang alla miniera di Biancaneve e i sette nani di Walt Disney; dai mostri sub-umani, pre-umani o extra-umani dei racconti di Howard Phillips Lovecraft agli alieni che emergono dal ventre di paleo-astronavi disperse nello spazio).

Prigioni, sotterranei, cloache, città e macchine morte: da queste zone senza luce sempre nuovamente emerge l'ossessione romantica per Atlantide, il luogo sommerso delle magnifiche sorti del progresso; viaggi che non procedono più per estensione ma in profondità; figure che non esprimono il principio di realtà ma l`inconscia consapevolezza di un “mondo reale” e per ciò stesso muto, inattingibile, sacro (quindi fatalmente esprimibile solo attraverso fantasmi o corpi tra la vita e la morte, sfuggenti, ibridi, mutanti). In questi abissi vengono individuate anche le forme produttive che il potere sfrutta e relega ai margini dell’estetica del bello, dell`etica del buono, dell’educazione del gusto: l’altra parte della città, delle sue istituzioni e delle sue rappresentazioni, Ciò che al cittadino appare barbaro e al barbaro la sua nuda vita, la deriva antropologica cui è stata abbandonata dal sapere dei civilizzati. Su questo versante post-moderno viene meno l'esemplare modernità del film Metropolis e dello schermo come linguaggio delle metropoli, territori in cui il retroscena del lavoro è immaginato come inferno dei vivi, cuore di tenebra della tecnica, luogo di sfruttamento del proletariato, ma anche matrice - a immagine e somiglianza delle catacombe - di una nuova solidarietà e salvezza.

Tutto ciò che si è articolato tra chiaro e oscuro, superficiale e profondo, emergente e sommerso, adesso, con i nuovi ritmi della globalizzazione - o meglio della potente sintesi cibernetica tra globalizzazione e localizzazione - viene tradotto, trasferito, trasformato dalle nuove piattaforme esperienziali e psicosomatiche dei linguaggi digitali, spintesi assai oltre il cinema e la televisione, sino a toccare la biosfera in cui l”uomo, la natura e l’artificio si incontrano. I linguaggi delle reti telematiche sono il mezzo espressivo di una corporeità radicalmente diversa da quella delle identità collettive del tempo moderno, dai simulacri di cui si è nutrito, dalle politiche con cui ha dominato.

Il mito della caverna evoca qui un altro processo: le profondità che vi emergono non sono quelle della metropoli, delle mappe geopolitiche, delle differenze tra passato e presente o domicilio e sfera pubblica, ma sono le profondità della persona. Secondo il modo d”essere della civiltà moderna, nella caverna non era dato di vedere, leggere; non era dato comunicare al di fuori. Ora il computer consente di uscire fuori dalla caverna in cui la sfera biologica è stata imprigionata ed è la sua parte oscura a potere comunicare con l`altro.

Al desiderio ecologico di illuminare e bonificate la città sotterranea, di spiegarne in pubblico l’utile e il dilettevole, corrispondono ora rivelazioni ed emergenze di ciò che le forme autoritarie della modernità e dei suoi linguaggi hanno mortificato e represso nell`interiorità dell’esperienza: afasie e analfabetismi dell’infanzia, della senescenza, del femminile e del transessuale, del polimorfo. Di ciò che è immemore e senza storia. Desideri insoddisfatti che premono verso una luce, una messa in relazione che non sia quella riflessa degli schermi, la loro semplice “ messa in scena”.

 

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 LA CRISI DELLA PANDEMIA E’UN PASSAGGIO PER RISCOPRIRE LA CENTRALITA’ DELLA PERSONA.

a cura di Alberto Abruzzese

In sintesi: il carcerato è carne viva reclusa dalla pietra e cemento del carcere, così come la persona viene quotidianamente reclusa dal soggetto sociale. Proviamo a sciogliere in discorso questa sentenza. A parte i nessi più ovvi, di causa-effetto, tra la pandemia e le viste sommosse e le oscurate tragedie carcerarie, c’è una più sostanziale relazione tra le rappresentazioni istituzionali, culturali e politiche della sofferenza dei carcerati e i contenuti della pandemica esistenza ormai da tempo in corso e in crescita esponenziale dentro e fuori dai social?

Cos’è da sempre – da che la società s’è fatta società dei delitti e delle pene – la vita di un solo individuo per il quale, recluso dentro le mura di una cella, non c’è alcuna garanzia di giusta pietà umana? Cos’è persino adesso che la società, sentendo a rischio il proprio ordine e i propri ordinamenti, si affida alla propaganda di ogni buon sentimento di patria, bontà e carità? Di felicità familiare e buon governo? Tutti valori, questi, che sono la faccia bifronte di ogni bene e male, pace e guerra, della Storia. Da sempre. Ma ora cosa diventa o può divenire il senso di libertà degli individui, liberi o segregati, a seguito dell’attacco virale e dei tanti provvedimenti presi dal parlamento italiano contro il nemico mortale che sta invadendo tutti noi in Italia e nel mondo intero o, almeno al momento, quello più illuminato dai fari dell’Occidente?

 

Il carcerato – disprezzato e umiliato dalla quasi generalità dei saperi istituzionali incardinati nei diritti esclusivi del cittadino – è la figura che più incarna e rappresenta la condizione della singola persona di fronte al potere e ai suoi interessi. Figura estendibile a molti altri diseredati della terra: costretti nell’infelicità, sofferenza e miseria dei loro recinti. E cruentemente respinti nel tentativo di liberarsene. L’insieme di poteri che – in gradi infiniti di tirannide – compongono la qualità dei sistemi sovrani sul mondo, si mostra con gli stessi occhi bendati, la stessa bilancia, la stessa spada della convenzionale rappresentazione della Giustizia. Pesi e misure che impongono amputazioni: così, alla carne sensibile che vive nel corpo di un singolo individuo, le leggi concedono di esistere non come persona ma solo in quanto corpo assoggettato al suo ruolo sociale ovvero appartenenza identitaria, lavoro e professione.

 

Si apre a questo punto la considerazione su come il sistema di potere, in cui la persona è inscritta solo a patto di condividerne la soggettività, vada ora operando alla propria sopravvivenza nella situazione di malattia virale, massima e cieca disgregazione, del proprio tessuto sociale.

Innegabile: lo sta facendo nella forma culturale – ideologica, sociale e politica – di una strumentale ricostruzione di sé attraverso i medesimi valori del proprio passato e del suo attuale stato di presunta salute. Sono innumerevoli i segnali di questa preventiva restaurazione. Tuttavia, è ben difficile pensare che possa accadere diversamente, a meno di non ricorrere ad una vera e propria trasmutazione dei valori del soggetto moderno. E questo può succedere solo facendo forza e perno sulla persona invece che sul soggetto che la possiede.

Quanto tale trasmutazione non stia accadendo e abbia poche probabilità di accadere ad opera della soggettività moderna, delle sue odierne politiche, lo si può evincere da innumerevoli segnali.

I tanti provvedimenti congiunturali e appelli dal basso e/o dall’alto, per superare il contagio – sufficienti o insufficienti che siano sul piano tecnico e operativo della cura e prevenzione del male – conservano e anzi accrescono i valori di fondo di una civiltà che, alla paura di collassare, risponde con tutte le sue tradizionali credenze. Ed anzi le rafforza quale sia il loro fronte identitario e ideologico. Nella bolla mediatica di pareri e commenti sul presente e, abbastanza alla cieca, sul futuro di questa catastrofe, prevalgono di netto quelli dettati dall’idea che l’apocalisse di ciò che si è infranto vada urgentemente ricondotta alle diverse precedenti, ordinarie, condizioni e mentalità del nostro stesso sistema sociale.

Con l’obiettivo, inevitabilmente dato per urgente, di frenare il dilagare di una generale “fobocrazia”, ogni “parte” del sistema, ogni sua contrapposta auto-rappresentazione, ogni sua diversa agenzia di persuasione, tenta di reagire facendo ricorso alle proprie passate certezze e credenze. Siano esse espressione della necessità di modificare oppure conservare le proprie strategie e la natura dei propri obiettivi.Significative in tal senso – direi più dei talk show divulgativi – sono le opinioni della cultura di livello alto. Tra tutte, ne scelgo una soltanto, ma di particolare evidenza in quanto proveniente dal pensiero di un grande filosofo tuttavia militante come Massimo Cacciari. Non si tratta di un appello – come quello fatto, per dirne uno soltanto, da Marco Damilano – a partecipare a una “nuova resistenza”. Oppure, da altri consanguinei, a un “nuovo Stato”. Ma si tratta di una prima pagina (sempre su L’Espresso) che il filosofo ha scritto ricorrendo all’espediente fantascientifico di fingere un rapporto sulla situazione nazionale-globale dopo vent’anni dalla odierna catastrofe. Un espediente che ha il merito di dimostrare la totale scarsa fiducia di Cacciari sui modi in cui il nostro sistema di potere (le sue teorie e tecnicalità, i suoi professionisti e apparati) sta affrontando l’emergenza.

Ma al tempo stesso la radicalità del suo punto di vista lo porta a immaginare un ritorno – un “balzo” dice – alla Grande Politica. In questa illustre, classica, formula Cacciari vede la sola capacità di “cura” e dunque risanamento, recupero, delle rovine del sistema attuale, da lui bene elencate una ad una, quasi fosse un giornalista. Ecco così che, ricorrendo alla quintessenza del pensiero politico moderno, alla necessità di ricostruirlo per ricostruire, il filosofo mostra di credere che non vi sia da fare altro di meglio che ricomporre l’infranto facendo ricorso alle forme di storico assoggettamento della persona allo stato di necessità della società in cui è inscritta. Dunque, non alla persona, alla sua vita singolare, ma al soggetto che la struttura dentro la propria piattaforma politica.

Passaggi occidentali

Prima di argomentare il nodo per me cruciale della differenza della persona rispetto alle varie identità su cui si fonda la società, devo tentare la sintesi di alcuni passaggi occidentali: una traccia molto rozza e approssimativa, fatta per semplici punti. Tutto sommato lo fanno anche figure come Cacciari quando, con la giusta idea che non vi sia più tempo per restare vincolati ai tempi lenti e elitari del proprio argomentare, si fanno finalmente consci dell’urgenza di dire il necessario rinunciando all’ordito complesso dei propri saperi libreschi, delle loro spirali senza fine. Si tratta di tre passaggi chiave.

Primo passaggio. Lungo l’intero processo di modernizzazione della civiltà occidentale, le forme di sapere applicato, strumentale e decisionale si sono abilmente costruite nel tempo e nello spazio, grazie alla straordinaria capacità dialettica dei loro sistemi di appartenenza – di potere e governo – nel ricavare i propri anticorpi dai collassi e dalle catastrofi prodotte o incidentalmente incontrate di volta in volta nel loro percorso. Tuttavia, lungo la linea di sviluppo della società industriale, sin dal suo procedere otto-novecentesco, l’intelligenza della volontà di potenza delle magnifiche sorti di tali sistemi economico-politici ha abbattuto ogni ostacolo che rischiasse di frenarla. Ha rimosso, eluso e scavalcato i margini di pensiero critico via via emergenti in opposizione o quantomeno netto contrasto con le proprie ideologie e strategie. Le ha rese sempre di nuovo vincenti in virtù della immodificabile coerenza dei propri obiettivi.v

 

 

Secondo passaggio. Prodotto di forme relativamente “autonome” di lavoro intellettuale assai più che di apparati e istituzioni, la cultura alta è vissuta (forse non poco paradossalmente, ancora vive) nell’ambizione di sapere scavare in profondità – dall’alto verso il basso, ovvero là dove più tramestano le tattiche del potere – dentro le forme di vita del mondo (il loro passato, il loro presente e il loro destino). Dunque, sono stati molti autori a pensare e scrivere nella convinzione (divenuta una vera e propria tradizione culturale giunta sino ai nostri giorni) che la modernità – in ogni sua prospettiva passata, presente e postuma – fosse arrivata al proprio limite estremo. E in questo fallo fosse precipitata a seguito della ingannevole qualità dei suoi stessi fondamenti. Molti sono stati gli scrittori convinti che già fossero cadute le sue speranze. Già fallito in anticipo il suo futuro. E dunque certi che della civilizzazione moderna andasse spezzata la sua progressione lineare,tanto più determinata, nella sua perversione, quanto più perseguita come sistematico, ovvero strategico, assoggettamento del mondo.

Assoggettamento ai propri fini anche per mezzo della sua secolare quanto vana, illusoria, catena di crisi e catastrofi. E di tante azioni e controazioni sociali, restaurazioni, rivoluzioni e movimenti: tutti conflitti dovuti all’avvicendarsi di diversi soggetti di volta in volta e di luogo in luogo socialmente emergenti nella storia dei sistemi di vita occidentali. Questo succedersi di regimi tradizionali è accaduto sino al crollo del muro di Berlino, per trapassare poi nella incoerente e insieme coerente pluralità dei regimi pre-democratici, democratici o post-democratici o anti-democratici, progressivamente sempre più determinati dalle aumentate strategie politico-finanziarie della globalizzazione.

Terzo passaggio.Questa vicenda, da me qui accennata solo per grandissime linee, arriva al culmine di una vicenda assai più estesa nel tempo: la lunghissima durata dei processi di civilizzazione che, dal mondo greco-romano e dalle culture giudaico-cristiane, arriva alla modernità, passando via via per le nuove forme, sempre più accentuate, di disincanto e mondanizzazione della società attivate dall’umanesimo, dall’illuminismo e dal romanticismo in avanti. Questa è la lunga genesi del soggetto moderno e della sovranità del suo pensiero e delle sue azioni. Le invenzioni religiose, in particolare quella insorta con lo stato nascente del cristianesimo, avevano a loro modo individuato nella singola persona il possibile punto di fuga – di deviazione – dalle forme di sovranità terrene.Fu questo il nodo della crisi di potere dell’Impero Romano.

Ma questo clamoroso passaggio fu una operazione praticabile e praticata in virtù del fatto di contrapporre, ai soggetti e alle forme di potere temporale sugli abitanti della terra, il potere unificante, eterno e universale, di un Dio dei Cieli. È qui il modello ideale, irriducibile, dello snodo socioculturale progressivamente realizzato nel tempo moderno come dominio assoluto del soggetto storico della civilizzazione occidentale sulla vita quotidiana di ogni relazione mondana. E dunque di ogni persona.

Proprio tale assoggettamento dei singoli sotto il manto di una volontà superiore a ciascuno di essi e alla loro somma – attraverso legami culturali che li saldano in un solo sistema servo-padrone – ha fatto sì che, al pensiero umano di chi debba o voglia esprimersi sul mondo in cui abita, accada di potere riuscire a farlo nell’automatica illusione di parlare e scrivere a proprio nome, in nome della propria singola persona, invece che imprigionato nella permanente costrizione identitaria della prima persona plurale. Del Noi.

 

Dai tre passaggi elencati, per quanto espressi in modo così elementare e approssimativo (purtuttavia approssimazione non significa solo imprecisione ma anche tentativo di semplificazione e avvicinamento), credo si possa ricavare la necessità, fattasi ora così urgente, radicale, di spostare la prospettiva verso cui dovere orientarsi, attivare la propria vita.Di lanciarla finalmente al di là della sovrana violenza del noi – fuori dalla sua ingiustizia e sostanziale “falsa coscienza” – per polarizzare invece il discorso sulla singola persona. Una scelta paradossale, contro-senso, ma almeno interiormente percepibile e sensibile in quanto intima rivolta della persona – la sua voce interiore – contro le regole della grammatica. Tanto più tenendo conto che, nel frattempo del nostro presente, sono sopravvenuti due clamorosi fattori innovativi, in grado di facilitare l’impresa.

Il primo fattore è costituito dall’incremento esponenziale delle relazioni di rete che ha clamorosamente sempre più affermato e insieme rafforzato il peso di forme relazionali di comunicazione accentuatamente personali. Piattaforme espressive nelle quali il noi perde terreno rispetto alle prime e seconde persone singolari o si fa espressione tribale. Il secondo fattore: qui e ora a farsi possibile terreno di coltura è soprattutto la catastrofe virale che ha rapidamente devastato ogni genere di socialità ordinaria quanto straordinaria dell’abitare. Cerchiamo allora di capire qualcosa di questi fattori di mutamento.

Il regime di paura imposto dalla natura vivente ma non umana del coronavirus – paura individuale di essere a rischio minuto per minuto, ammalarsi, soffrire, morire o vedere e vedersi morire in solitudine, crollare le proprie fortune e i propri beni – certamente non sta liberando i soggetti sociali dai propri vincoli di status e di ruolo. Anzi essi sono costretti – per deontologia e obbligo civile, per interesse o per forza, per scelta o imposizione – a farsene carico meglio o peggio ma comunque come e più di prima. In ogni caso, tuttavia, il noi è qui percepito, risentito, come dilemma e stato d’eccezione.

 

Di certo non si può davvero parlare di una qualche coscienza di liberazione della persona dal proprio vincolo sociale neppure laddove si tratti di individui poveri e disagiati, in condizione di bruta sofferenza quotidiana. Tuttavia, il virus, in tutta la sua brutale evidenza, sopraggiunge su di loro facendo mostra delle stesse sembianze, ma esasperate, della natura mortifera o ingiustamente vivicatrice della società. Drammaticamente costretti a pensare alla sopravvivenza della propria persona, della propria nuda vita, essi si percepiscono dipendenti, quanto mai prima, da decisioni legislative e amministrative, politiche e economiche, persino umanitarie, che li rendono più che mai consapevoli di essere in tutto vincolati agli armamentari del noi invece che a se stessi. Assolutamente dipendenti da un destino da cui si sentono estranei.

In tutti – siano essi cittadini gettati in situazioni di emergenza oppure, e tanto più, individui reclusi e abbandonati dalla società civile, dalla cittadinanza – domina il senso comune, plurale e interclassista, della sola verità immediata, senza necessità di dimostrazione, costituita dal picco di dolore psicofisico e paura della morte che il corpo umano subisce ad opera di una violenza sovrana e spietata. Scatta allora con altrettanta violenza, in modo consapevole e per nulla inconscio, il desiderio di sopravvivenza della singola persona quale sia la sua identità, l’identità che gli è toccata di vivere nel mondo. Si tratta dunque di una dimensione in cui a sentire e darsi voce non è il noi che parla per tutti e ritiene scontato di dovere essere ascoltato da tutti, dagli altri e dall’altro, come se al posto della sua ci fosse la loro voce. Ma è la persona che parla a se stessa per se stessa.

Qui, emergendo come da una voragine, appare una verità che si motiva non nel dovere credere in una costruzione ideologica, in un dio onnivoro, terreno o celeste che sia, ma si motiva invece nella assoluta discontinuità, lacerazione, di un sentire immediato che agisce per mezzo della sofferenza e della paura di soffrire.

Sentire soffrire la propria carne. In questo evento la esclusiva percezione di sé in quanto carne a rischio di dolore e morte si oppone al noi della falsa coscienza universalista del Grande Leviatano: sovranità di un desiderio di potenza della natura umana che, per affermarsi e rendersi manifesta, s’è presa a carico lo stato di necessità delle singole persone, immerse una a una nel suo incommensurabile corpo. Nel debito inestinguibile della sua ospitalità. Nella storica drammaturgia occidentale tra immanenza e trascendenza.

Contro il futuro del presente

Patti chiari: nessuna di queste mie considerazioni intende negare la necessità di usare qui e ora ogni scienza e tecnica possibile per arrestare la natura mortifera del Covid-19. Cadrei nella svista contro-concentrazionaria di Giorgio Agamben e di conseguenza dovrei scivolare nelle vecchie mistiche teologico-politiche del Vuoto. E ancora: non mi sogno di attribuire nessuna validità etica all’emergere, pur istintivamente motivato, della natura egoistica, dunque per nulla sociale, della persona che teme per la propria vita e per le sofferenze della sua carne. Gli americani son corsi a comprare armi per difendersi dal cortocircuito tra paura e violenza: forse anche perché storicamente afflitti dalla sindrome amico-nemico proprio in quanto cittadini del Nuovo Mondo, per eccellenza Mondo Moderno.

Infine: ora non ho nulla contro il risuonare dalle finestre di inni risorgimentali o canzoni d’amore o rimembranze poetiche: sono segnali comunitari di speranza che valgono come una medicina, un “calmante” (almeno sino a quando di tale medicina non si scoprirà il pericoloso, illusorio, effetto placebo o gli sconosciuti danni collaterali).  Ho voluto scrivere questo articolo nel tentativo di spiegare perché ritengo che, alla ideologia moderna fondata sulla estrema pericolosità della persona socialmente non inquadrata dal/nel soggetto civile, le sue istituzioni e le sue politiche, sia necessario contrapporre e valorizzare il reale che sta implodendo nella crisi umana e sociale forse più grande e tragica dell’Occidente dopo le immani catastrofi del Novecento.

E dunque sia necessario ribaltare di netto, o quanto più possibile, il paradigma (la mentalità) occidentale. Provare a fare sì che non sia il soggetto della tradizione moderna a dovere farsi carico della persona,ma questa a trovare la capacità di modificare quanto più possibile i contenuti, i modi e le forme, del soggetto.Tanto quanto quella parte di sé che lo sostiene condividendone e subendone gli stessi appetiti. Un obiettivo, questo, che richiede non una palingenesi immediata – impossibile proprio a causa dello stato di necessità e di sopravvivenza che lega tra loro persona e soggetto – ma tempi assai lunghi di interazione reciproca tra i due opposti fronti. Tra i dispositivi in uso nel sapere pensare del soggetto moderno (ma finalmente disposto, determinato a modificare i propri paradigmi) e i contenuti della persona in quanto oggettiva capacità di sentire le afflizioni del potere sulla propria carne.

Un volenteroso avvio in questa direzione potrebbe consentire la nascente percezione di quanto proprio l’incredibile salto in avanti del pensiero tecno-scientifico rispetto a quello delle scienze umane abbia eclissato il reciproco rapporto tra vocazione e professione che fu alla base della civiltà industriale e che s’è infranto con l’infrangersi del capitalismo storico e delle sue funzioni e persino finzioni. Una catastrofe inascoltata da vari decenni da tutti i ceti dirigenti. Dunque ci sarebbe ora molto da lavorare su vocazioni diverse, mai ancora praticate. E la vocazione è il linguaggio della persona.

Non mancano segnali. Un esempio cruciale: registrato il fallimento di ogni riforma universitaria – diretta causa del corrispettivo fallimento delle classi dirigenti a ragione della progressiva obsolescenza dei loro valori e insieme delle loro capacità – sta finalmente insorgendo, per quanto in certa misura ancora assai debole, l’idea di ridisegnare radicalmente i modelli formativi. A partire dalla vocazione invece che dai precetti della professione: da una solidarietà non socialmente, politicamente, imposta, ma personalmente vissuta, senza la quale non c’è possibilità alcuna di vedere nascere ceti dirigenti davvero capaci di sapere governare sui confitti di potere del mondo. Dunque anche sulla propria persona.

E allora. Certo che voi ed io sentiamo parimenti l’angoscia che monta con l’incancrenirsi del male virale, e insieme ne temiamo le conseguenze per noi stessi e per gli altri: morte e dolore. E, imminente, un’epoca di terribili carestie. Ma – sfruttando la possibilità che la scrittura ci offre nel mettersi a distanza critica dalle nostre emozioni – per me sono da preferire i messaggi capaci di cogliere cosa e perché non potrà essere mai più come prima… e come questa consapevolezza dovrà essere diversa da quella di ogni guerra e dopo-guerra del passato.O meglio: non potrebbe e non dovrebbe. Questo perché sarebbe grave che si ripetesse il tradizionale vincolo storico-culturale-sociale tra distruzione e ricostruzione: cioè l’idea che, per ricostruire, sia scontato accettare di tornare ai valori correnti in tempo di pace. Questi valori non sono forse gli stessi – le stesse distrazioni e rimozioni e presunzioni di giustizia – dei regimi carcerari? Se dunque si tornasse a pensare a semplici restauri o riforme, significherebbe che il futuro – immaginato e creduto salvifico – è invece già qui… nel tempo presente del coronavirus.

(il confronto ed il dibattito su questo testo di Alberto Abruzzese è negli allegati Discussione e Risposta alla Crisi della pandemia)                                                                                                        

Alberto Abruzzese           https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Abruzzese