11 APR 2022 TIME EXPERIENCE COMMERCIAL 

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“Il Novecento è davvero finito” di Cristina Bianchetti

La città attira l’attenzione centrale di ogni cultura sociale, politica, urbanistica, di ogni epoca, soprattutto di questa, in trepido divenire. Un concetto di città che è il cuore profondo di ogni problema e che diventa sempre più grande ed onnicomprensiva. Anzi. La questione della città si mondializza, passando dalla pregressa civiltà e città moderna (‘900), prima per punti e per Aree, poi ad una nuova civiltà e mega città contemporanea (terzo millennio) diffusa, che invade tutto.

Non è, allora, soltanto una delle tante ed innumerevoli evoluzioni urbane in continuità comunque controllabile (ultima esasperazione?), ma un salto da una era pur sorprendentemente scientifica, ad un’altra che aggiunge altro e tutto al limite. L’Impalpabile. E non solo il digitale, o il suggestivo virtuale. Una sensazione di impalpabile che va oltre qualsiasi fantasia e tecnologia fantascientifica. Che ingoia tutto, anche le sensazioni che prima ci sembravano l’orizzonte umano ultimo.

Oggi è il sovrumano folle. L’impalpabile è più fluido dell’acqua, nella quale naviga tutta la Società attuale in uno stato di incertezza globale, nuova condizione universale sbilanciante. Non per nulla il compianto Zygmunt Bauman ha ripetutamente sostenuto che tutto ciò che ci circonda è diventato liquido, perché sono venuti a mancare gli appoggi solidi del passato ‘900 e prima.

Uno sbandamento epocale di transizione? Che non chiarisce ancora se è un incidente di percorso, o se è proprio l’essenza di una nuova mobilità contemporanea?

Cristina Bianchetti (docente di Urbanistica al Politecnico di Torino) nel suo libro “Il Novecento è davvero finito” sostiene che la questione dell’Urbanistica incerta dell’oggi dipende, in particolare, da una perdita di dialettica o di analisi critica, di fronte al moltiplicarsi caotico delle nuove problematiche globali. Basterebbe riprendere diversamente l’approccio critico delle più ingarbugliate questioni urbane, per riportare alla chiarezza. Non credo. Forse è proprio il meccanismo della critica, presunta come inesauribile umana capacità logica, ad entrare anch’essa in crisi. A favore di una logica diversa, nuova, più circolare, o a curvature multiple, che prenda le mosse dallo stesso caos fluido. Fluidificandosi essa stessa.

La città sembra rappresentare molto bene tutto questo, invadendo l’intero campo dialettico in modo contorto, irreversibile, assoluto. Perché il suo spazio diventa esso stesso assoluto.

Non esiste più il territorio come confronto-contrasto vuoto-pieno possibile rispetto alla città tradizionale. Miracolata, allora, perché massima concentrazione umana. Che guardava il territorio da una finestra lontana.

La città con una rapidità impressionante è passata dalla città storica-moderna, alla città-metropoli, ed ora alla città post-metropoli. Che non fagocita soltanto il territorio circostante, ma lo ribalta, facendolo diventare altro da se.

Specchiandolo su se stessa, come una urbanità duale, o città infinita compensata, senza più dritto e rovescio. È il segno del contemporaneo, o solo un normale processo di evoluzione oltre il limite (caos involutivo per eccesso)?

Il senso di questo discorso non sta solo nella transizione alla dimensione fisica spaziale. Chiama in causa altri parametri. Spazio-temporali per esempio. Come in un gioco einsteiniano, applicato, questa volta, anche alle città e post-metropoli. Rovesciando l’intero senso scientifico della modernità storica, e così anche la stessa lunga vicenda urbana. Diventando simbolo della modernità ultima. Aiutata dall’aura digitale (il massimo dell’impalpabile attuale?).

Talvolta penso che Einstein abbia anticipato, in forma fisico-matematica, l’incredibile ed evanescente mondo del digitale. Trasponendolo e mescolandolo in nuovi e paralleli piani culturali relativi.

Al tempo, non lontano, della semplicità intellettuale lineare o parallela, l’autonomia delle varie discipline sembrava, invece, normale e fertile, con un ricongiungimento culturale solo a valle. Oggi che la complessità globale supera ogni soglia ragionevole, l’autonomia disciplinare non ha più senso, a favore di una inevitabile integrazione interdisciplinare, interculturale. Un cambio culturale, che è proprio quello della nuova era contemporanea. Che opera a spirale, o a frattale.

Cari Urbanisti, che combattete contro la crisi di un’Urbanistica ingarbugliata, dovreste rendere più fluido il vostro metodo tecnico ancora eccessivamente razionalizzante! Dovreste, invece, introdurre nel vostro processo urbanistico il parametro "tempo". In senso anti-razionalizzante! Addirittura dovreste introdurre il senso relativistico dello spazio-tempo urbanistico!

Soprattutto dovreste premettere o immettere nella vostra Urbanistica il sale della filosofia. Quella che ogni volta riparte da zero, per arrivare più lontano. Che sta da sempre in mezzo alla città.

Vorrei chiarire, al proposito, la situazione, mettendo a confronto due modi diversi di interpretare i fenomeni urbani, soprattutto quelli attuali che entrano nel gigantismo urbano complesso.

Da una parte metto un tipo di ricerca urbanistica prettamente tecnica, sia pure innovativa, elaborata recentemente dal Politecnico di Milano sulla post-metropolizzazione.

Dall’altra un’analoga esperienza filosofica, tratta dal libro “La città” di Massimo Cacciari.

Secondo lo studio universitario milanese le metropoli dei due secoli scorsi circa, sono l’effetto di un’incessante espansione della macro-città tradizionale, assalita in modo sempre più deformante dai due altri grandi fattori di evoluzione/involuzione moderna. L’Industria e il Mercato (i due nuovi centrismi dalla città moderna). Mantenendo appartata l’urbanità storica del nucleo originario.

La post-metropoli è ancora più violentemente spiazzante. È un diverso modo di considerare lo sviluppo urbanistico della città nel suo territorio (la nuova gelatina spaziale, che amalgama standardizzando). La post metropoli si ingigantisce di colpo, divorando i suoi confini, con un effetto reticolare continuo, che si appropria di tutto lo spazio disponibile. Sottraendo al territorio le sue originarie connotazioni di spazio aperto complementare. E trasformandolo in una urbanità traslata.

La conclusione è una modificazione informe, infinitamente estensiva. Che chiama in causa nuovi strumenti di intervento urbanistico (la pianificazione reticolare), con analoga logica di base, ma protratta senz’anima, in forma sistemica sempre più complessa, che oltre non si può.

Non mi soffermerei oltre (pur rispettando), perché è scontata l’estrapolazione tecnica concettuale.

Sullo stesso tema il filosofo Cacciari introduce, invece, immagini diverse, più suggestive, che attengono alla storia della città dall’angolo visuale del metodo filosofico, come grande matrice della conoscenza universale. Per arrivare a risultati sorprendenti, svelando quello che davvero succede nel profondo della nostra povera città in crisi di identità, e della sua Società prigioniera.

Cacciari inizia sottolineando la differenza tra la Polis greca, città mantenuta integra rispetto al primitivo genos, ed incentrata attorno all’Agorà, lo spazio degli scambi urbani pubblici-collettivi. La città amabile, espressione del calore domestico, inteso come intimismo individuale (la dimora) e intimismo pubblico-collettivo (lo spazio pubblico).

Dall’altra parte sta la Civitas romana, che apre a qualsiasi provenienza ed integrazione etnica, a condizione di accettare la legge romana, intesa come strumento regolatore di ogni cosa. È il sistema sociale che apre al concetto della espansione infinita, a fronte della regola.

L’Europa, pur riconoscendo le sue origini culturali greche, deriva dalla Civitas romana. La città macchina, che stringe o irrigidisce tutti gli intimismi di origine.

Da questo deriva, da una parte, il conservatorismo della Polis, e dall’altra il modernismo funzionale, (oggi mortificante). In medio stat virtus suggerisce Cacciari agli Urbanisti.

L’ultimo evento post-metropolitano (senza più referenze centriste) si avvicina al modello della Civitas infinita, diffondendo un senso di urbanità uniforme, indistinta.

In tutto questo Cacciari evidenzia come essenziale la perdita del concetto di luogo urbano effetto della Polis, come esigenza necessaria della funzione dell’abitare nella città. Fuori dalla nicchia individuale, familiare.

Nella città post-metropolitana – infinita, indistinta, omogenea, senza programmazione, con distanze smaterializzate, senza disegno urbano, succube delle trasformazioni rapide, imprevedibili, non programmabili, con perdita di memoria urbana (fine della storia della città?), Architettura come iconicità avulsa, casa non-casa -, sparisce il concetto totale di rappresentazione storica della città e della Società. Quindi dell’individuo come persona e collettività.

Ricostruire i luoghi di un’idea appropriata di città perduta è impossibile, o contro-tendenza. Dice Cacciari quasi reazionario. La persona è il primo luogo di se stesso. Non può fare a meno dei luoghi che stanno al di fuori di sé. Come pause/silenzi negli spartiti musicali urbani.

Anche Cacciari vola con la fantasia, immaginando che si possano realizzare alcuni futuri presagi fantascientifici, come quello dell’uomo che si trasferisce come pura energia, da un luogo all’altro.

Modificando al tempo stesso il concetto di luogo urbano fisico in quanto tale. Da sempre individuato con strumenti della coscienza collettiva storica, e nella forma di precisi habitat umani. I nuovi luoghi saranno, allora, quelli della città globale, reale e virtuale al tempo stesso. Con un rischio, anche qui di tipo reazionario (post visionario).

Ogni volta che mi capita di immaginare la divaricazione tra la città amabile (Polis) e la città meccanica (funzionale) vedo la città dei grattacieli. Una specie di piccola post-metropoli concentrata, verticale, dove gli edifici spillo proiettano verso l’alto la dimora, eliminando i luoghi nel basso, lasciando spazio alla miriade di tante strade ortogonali, riconoscibili solo con un numero. Il luogo? Solo al centro in un grande Central Park, tanti luoghi sommati, che insieme non fanno un vero luogo.

Un’immagine fantasiosa, che ammonisce sul pericolo assoluto di perdere la specificità dei luoghi assoluti (luoghi come identità?). E con questo l’agonia dell’idea stessa di città, insita indissolubilmente nella nostra natura umana e anima.

L’Urbanistica d’avanguardia (presunta) annaspa in questo dilemma e panico, cercando nuovi paradigmi e tecniche innovative, che non potranno mai essere tali, senza la filosofia, il vero senso dell’umanità immutabile, in una società che invece muta, anche violentemente.

Lasciatemi dire che preferisco guardare con la lente del filosofo. Sogno una filosofia che esca fuori dai libri rompicapo e vada per strada, Sreet Filosofy. (O City Filosofy). Come l’Arte dei Musei che è scesa dai suoi quadri ed è andata nella Street Art. Massimo Cacciari sarebbe d’accordo?

Eustacchio Franco Antonucci

Bibliografia navigante :

Massimo Cacciari, “La città“, Pazzini Editore

“Una Galleria di ritratti dell’Italia post-metropolitana” – francoangeli.it

“Post metropoli” – Casabella – Convegno del 06 luglio 2015 – casabellaweb.eu

“L’Architettura, post-metropoli, il disegno urbano“, (presenza di Zygmunt Bauman, Vittorio Gregotti, filosofo Salvatore Veca), italicnews.it

Cristina Bianchetti, “Il Novecento è davvero finito“, Donzelli Editore

Simone Caiello, “Programma di ricerca del Politecnico di Milano“, finanziato da MIUR , www.che-fare.com

Alcuni concetti da Massimo Cacciari, “La città”

La città post metropolitana e anti-spazio.

Gli oggetti della città post metropolitana sono come oggetti che si muovono del cyber spazio.

Le nostre case sono semplicemente dei sensori.

La nuova agorà e il digitale virtuale.

Ma anche questo è un effetto reazionario, che tenta di risolvere il problema artificialmente.

Allora i luoghi non possono essere  quelli della Polis greca e nemmeno quelli della metropoli industriale. Dobbiamo inventare dei nuovi luoghi che siano questa volta connessi alla mobilità.

Il corpo umano è un luogo e ha bisogno di Luoghi. A meno che la città post metropolitana non voglia metamorfosi in anime che non hanno bisogno di luoghi fisici.

Il nomade non a luoghi? Li ha, soltanto che passa da uno all’altro.

I tappeti dei nomadi rappresentavano proprio la voglia di volare da un punto all’altro.

Ovvero possiamo immaginare che i nuovi luoghi sono quelli dove potremmo trasferirci con il metodo delle profezie scientifiche. Quando l’uomo sarà oltre l’uomo.