11 APR 2022 TIME EXPERIENCE COMMERCIAL 

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Le forme della conoscenza universitaria in Italia- Il caso della Facoltà di Architettura a Napoli

in preparazione 

Foto ripresa dal sito facebook "Facoltà di Architettura" - Gruppo Pubblico

 

CONTESTUALIZZAZIONE DEL TEMA UNIVERSITA'  IN ITALIA NEGLI ANNI ’60-’70-'80

Da Passato e Presente-L’Università di massa (da RAI PLAY). 

Paolo Mieli: A cinquant’anni dalla legge che liberalizzò l’accesso agli atenei, oggi a Passato e Presente parliamo della nascita dell’Università di massa. Di che cosa stiamo dicendo? Basta pensare che gli iscritti erano 287.000 nel 1961 e sarebbero arrivati negli anni ’80 fino ad un milione. E’ un iter molto complesso che passa attraverso la rivolta giovanile del 1968, la seconda rivolta  più distante dalle università del 1977 ed un’infinità di riforme fallite, contrastate e mai arrivate definitivamente in porto. 

Commentatrice Filmato:

21 Luglio 1961, il Parlamento approva la legge n.685,che allarga le maglie degli accessi all’università, aumentano le facoltà a cui si può accedere con il diploma d’ Istituto Tecnico ed arriva un’ondata di nuovi studenti.

17 Novembre 1967, gli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dopo una lunga assemblea notturna, decidono di occupare l’università. Il movimento studentesco del ’68 accelera la trasformazione dell’ istituzione universitaria.

11 Dicembre 1969, viene approvata la legge Codignola, che liberalizza del tutto l’accesso alle facoltà universitarie e permette d’individualizzare i piani di studio.

Paolo Mieli: Puntata importantissima oggi, della nascita dell’università di massa. Parliamo con la professoressa Simonetta Soldani e con Ludovica Filieri, Luca Marchetti, Valentina Pagano. Professoressa, chiariamo subito, università di massa vuol dire che è un’università con un sacco di gente? Più o meno.

Simonetta Soldani: Non solo con un sacco di gente, ma con persone diverse rispetto a quelle che precedevano l’esplosione numerica. Noi pensiamo sempre alla massa come quantità, ma il problema è che cambia radicalmente la qualità degli studenti e quindi anche le domande che questi studenti fanno all’università.

Paolo Mieli: Giusta osservazione, allora le faccio una domanda per metterla con le spalle al muro: perché in tutti i paesi occidentali, questo  “diventare di massa” viene accompagnata da riforme che sanno dare delle regole al fenomeno, invece in Italia tutto avviene nella maniera più confusa ed anarchica senza una riforma organica?

Simonetta Soldani: Io credo che ci siano più motivi, ma riduciamoli pure all’essenziale. Il primo motivo è senza dubbio la grande tradizione dell’università italiana. L’università italiana è una istituzione di tradizione plurisecolare, mai soggetta a riforme, perché riforme non ce ne sono mai state, centrata sulla cattedra e sull’ordinario, che aveva tutti i poteri possibili. Voglio dire, noi chiediamo ad un Parlamento in cui ci sono deputati e senatori che sono anche professori universitari (71 erano nella metà degli anni ’60) e queste persone devono decidere una riforma che impedisce loro di essere insieme parlamentari e professori. Chiedere alle persone di perdere potere non è mai facile.

Paolo Mieli: Mai lo faranno. Quest’ultimo dettaglio è decisivo e ci consente di entrare nel primo capitolo, negli anni del boom economico la riforma dell’università entra nel dibattito politico e pubblico.  La popolazione universitaria comincia a crescere rapidissimamente.

Commentatrice Filmato-L’Università del boom:  Alle soglie degli anni ’60, il sistema scolastico italiano si fonda ancora su una impostazione ereditata   dal periodo fascista, l’università è sostanzialmente elitaria frequentata dalla classe agiata e la scuola dell’obbligo prevede solo i cinque anni delle elementari. Il tema della scuola e dell’allargamento del diritto allo studio entrano a far parte del dibattito politico e pubblico. Nel 1961 il Parlamento  approva una legge ereditata dal precedente governo Tambroni, che allarga le maglie dell’accesso all’università per chi proviene dagli istituti tecnici. La legge n.685 consente ai diplomati degli istituti tecnici, l’iscrizione a facoltà come Ingegneria, Scienze matematiche, fino a quel momento riservate a chi proveniva dai licei. Il nuovo governo Fanfani, una coalizione tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista Democratico e Partito Repubblicano mette al centro dei suoi obiettivi una serie di riforme tra cui la nazionalizzazione dell’Enel e la scuola media unica. Nel 1962, con la storica legge n.1859, viene istituita la scuola media unica ed obbligatoria, i cui effetti sulle iscrizioni alle superiori ed all’Università si faranno sentire nella seconda metà del decennio. L’impulso eccezionale della crescita economica dei primi anni ’60 e l’aumentato benessere consentono ad un numero sempre più ampio di famiglie d’investire nell’istruzione dei figli: Il titolo di studio è speranza di ascesa sociale.

Intervistata: non ho scelto io, ha scelto mia madre, quindi  mi ci hanno mandata alle magistrali.

Intervistatore: adesso che c’è si trova bene e quando avrà finito che cosa farà?

Intervistata: Vorrei nello stesso tempo insegnare ed andare all’università al Magistero.

Nel 1963 viene introdotto l’assegno di studio universitario a seguito della proposta presentata al governo  dall’UNURI (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), nata nel 1948. Dai risultati della relazione della commissione d’indagine sullo stato della Pubblica Istruzione, prende forma il Piano Gui, dal nome del ministro democristiano che guidò il dicastero dell’Istruzione dal 1962 al 1968. Il piano presenta una serie di proposte e di riforme per le università.

Parla il Ministro GUI: “..D’ora in poi  esse potranno dare altri due titoli accademici,  un titolo di primo grado, il diploma universitario che si consiguerà.,  dopo almeno due anni di studio universitario, poi dopo rimarrà il Diploma di Laurea e dopo la laurea è previsto l’introduzione di un nuovo titolo di studio chiamato Dottorato di Ricerca.

Il Disegno di legge Gui n.2314 del 1965, prevede la creazione dei Dipartimenti, strutture interdisciplinari dedicate alla ricerca ed  agli istituti aggregati per i diplomi universitari. Il primo dibattito parlamentare sul progetto di riforma dell’università divide trasversalmente la stessa Democrazia Cristiana. Famosa negli atenei come la 23 e 14, la Legge GUI è contestata dagli studenti perché con la separazione dei percorsi accademici istituisce titoli di serie A e di serie B. Ma viene bocciata anche dalla lobby dei professori parlamentari. Dopo tre anni di dibattito politico, accademico e pubblico, la discussione di questa legge si arena nel 1968 quando finisce la legislatura. L’università però è già cambiata, dalla metà degli anni ’60 un gran numero di nuovi  studenti  si riversa negli atenei delle grandi città e specialmente ai diplomati degli istituti tecnici e delle magistrali, studenti  di estrazione  sociale modesta, che si deve il forte balzo in avanti dei numeri della popolazione universitaria. Le iscrizioni passeranno dalle 287.000 del 1961 alle 616.000 del 1969.

 Paolo Mieli: Ludovica Filieri, cosa è che da fuori spinge all’aumento di questi studenti nell’università?

Ludovica Filieri: Dunque è opportuno notare che la formazione che necessità ambiti particolari dell’Italia sono innanzitutto il riflesso di trasformazioni economiche e politiche che interessano tutto il paese. L’Italia cessa di essere un paese contadino e diviene un paese industrializzato. Quindi c’è un grande esodo dal Sud al Nord e questo comporta appunto l’iscrizione di un gran numero di studenti, di ceti prima  meno abbienti all’interno dell’università, cosa che comporta appunto una riforma complessiva dell’ambito sociale universitario.

Paolo Mieli: Certo, poi ci sono studenti molto richiedenti, per esempio la questione del presalario, proposta già prima del ’68, mi sembra tanto, che gli studenti  chiedano una forma di rimborso, di compenso.

Simonetta Soldani: Diciamo che il diritto allo studio è poverissimo in Italia, perché l’Italia rispetto a qualunque paese europeo è un paese che ha l’università senza collegi. Le case degli studenti che ci sono in giro per i maggiori atenei riguardano numeri piccolissimi. L’importanza dell’assegno di studio che viene dato nel ‘63   e che poi viene allargato ulteriormente negli anni caldi della contestazione è una norma che prevede un cambiamento direi di figura, perché   in qualche modo si legittima l’idea, come disse lo stesso Gui, lo stesso Erbini: lo studente è un lavoratore. Lo dissero loro, prima che entrasse anche il movimento studentesco. Il discorso è una mano d’opera in formazione che però è una ricchezza, produce ricchezza per il paese e quindi non soltanto in un’ottemperanza all’articolo della costituzione, che parla di capaci e meritevoli deve essere una forma di sostegno. Per non fare case degli studenti, non ci sono campus in Italia e così via. Allora diventa quello l’asse ed anche l’assegnazione, chi è che deve considerare a chi vanno, perché uno dei problemi , come sappiamo in Italia,  per via dei problemi della riforma fiscale mai fatta è che è  molto difficile individuare chi sono i bisognosi. Dopo il ’69 sarà difficile individuare anche i meritevoli.

Paolo Mieli: Colgo l’ironia nelle sue parole,  professoressa Soldani e ne approfitto per inserirmi con un’autocritica, mi rivolgo a Valentina Pagano e l’autocritica che consiste nel dire io ho detto non ci fu nessuna riforma, nessuno se ne occupò in quegli anni, non è vero. Perché il piano Gui,  la  23 e 14, era una riforma anche se poi andò in frantumi.

Valentina Pagano: Sì il piano Gui  in effetti, presentò  alcune proposte,  ad esempio  la ripartizione dei titoli di studio, la modifica dei concorsi a cattedra e della docenza libera. Ma arrivò stralciata già nel dibattito in aula e soprattutto soltanto alcuni pezzi furono poi effettivamente varati. Questo dimostra ancora una volta che la risposta fu anacronistica rispetto a quelle che erano le esigenze del tempo.

Paolo Mieli: In più il piano Gui poi venne trattato come se fosse stato una cosa ultra selettiva, che divideva gli studenti, classista, si protestava, perché poi contro il piano Gui nacque il movimento del ’68, ma chi aveva ragione?

Simonetta Soldani: La riforma Gui era moderata diciamo, perché tendeva a mantenere il vecchio ed introdurre elementi nuovi, probabilmente se fosse stata approvata sarebbe stato meglio, che non vuol dire approvarne le linee. Però io tengo a precisare che la riforma arriva in parlamento, arriva tardi, perché cercano di arrivare alla fine della legislatura e quindi vengono approvati otto articoli. Ma subito dopo nel ’69 venne ripresentata una legge molto più seria di quella Gui, la 612 che va avanti in parlamento, che nel ’71 viene approvata dal Senato, che passa alla Camera, che arriva ad essere approvata per i primi trenta articoli  e che nel ’72 fa cadere il governo, perché il tempo pieno e l’incompatibilità non viene votata. C’è un’università davvero in grande espansione che fa richieste sostanziali   e che poi invece a livello parlamentare viene bloccata sul tema dei professori.

Paolo Mieli: Allora Luca Marchetti, perché i comunisti si oppongono in maniera così dura?

Luca Marchetti: Tutto questo dibattito i comunisti hanno una figura marginale perché le vere proteste sono all’interno del mondo cattolico, oltre all’interno della DC dove ci fu una spaccatura. Anche nel mondo universitario legato alla DC, rigetta la riforma non l’accetta, sia a livello studentesco che a livello di insegnanti e docenti, lo stesso mondo cattolico non accetta la riforma Gui.

Paolo Mieli: Infatti le prime contestazioni partono dall’Università Cattolica di Milano

Simonetta Soldani: Ancora prima da Sociologia di Trento che è nata sulla base di un’ideologia molto cattolica e di docenti cattolici e sono molto importanti perché segnalano  il rilievo che in Italia ha avuto anche tutta quella divisione del mondo cattolico negli anni ’60.

Paolo Mieli:  Quindi sostenete che la durezza dei comunisti  va dietro quella del mondo cattolico? 

Simonetta Soldani: Diciamo che anche i comunisti sono divisi al loro interno, ma devono mantenere il rapporto con il movimento studentesco.

Paolo Mieli: E chi è favorevole al piano Gui, se non dico favorevolissimi?    

Simonetta Soldani: Favorevolissimi, siccome il piano Gui è molto moderato, non ci sono tantissime persone. Per dire il responsabile scuola della DC, che allora era Rosati, o il presidente dell’UNURI, l’organizzazione degli studenti che era Nuccio Fava, un giornalista della RAI, questi sono contrari al piano Gui come tale. Però il piano Gui in discussione parlamentare poteva essere migliorato. I comunisti si oppongono più duramente nel ’68 perché in qualche modo cercano così di legarsi al movimento studentesco.

Paolo Mieli: E qui la volevo, allora  la porto nel secondo capitolo le trasformazioni del sistema universitario sono accelerate come diceva la professoressa Soldani, dal movimento studentesco dl 1968.

Commentatrice filmato -Il biennio caldo:   Le contestazioni che segnano la fine  degli anni ’60 hanno inizio nelle università. Le prime occupazioni iniziano nel 1967, negli atenei del centro-nord: Trento, Torino, Pisa e Milano.  Le sedi universitarie sono il teatro del dibattito e dello scontro, non solo sul merito della legge di riforma universitaria, ma sull’istituzione “università” nel suo complesso. Gli studenti denunziano la carenza di strutture didattiche e per la ricerca, le rigidità ed i costi dell’università, l’autoritarismo accademico. Chiedono partecipazione diretta ed assembleare. Quello che viene chiamato movimento studentesco ha al suo interno diverse anime. A Milano ad occupare sono gli studenti della Cattolica, a Pisa i più radicali perseguono una battaglia anticapitalistica  generale  e sono chiamati i “cinesi”. Altri più moderati si limitano a proposte alternative  di ristrutturazione dell’università. Nel 1968, sulla spinta di   mobilitazioni sempre più attratte da forme di partecipazione diretta si scioglie l’UNURI,  l’Unione  degli studenti universitari. La protesta degli studenti non trova ascolto nel quadro politico del centro sinistra, basato sull’alleanza tra DC e PSI. Offrono invece una sponda al movimento, per un breve periodo il PCI ed il PSIUP. Al febbraio del 1968 a Roma il Rettore Davak fa intervenire la polizia per sgombrare l’università occupata. Il giorno dopo un corteo di protesta  si scontra, con le forze dell’ordine, davanti alla Facoltà di Architettura. La battaglia di Valle Giulia, divide l’opinione pubblica, i partiti e gli intellettuali. Nei primi mesi del 1969, il Ministro dell’Istruzione Ferrari Aggradi presenta a nome del Governo un nuovo progetto di riforma universitaria. Il disegno di legge 612 prevede l’apertura degli accessi a tutti  i diplomati, la creazione dei “dipartimenti”, il docente unico a tempo pieno, l’incompatibilità parlamentare ed organi di autogoverno dell’Università con rappresentanza studentesca. Nell’estate del 1969 i movimenti sociali e sindacali sono in agitazione, la tensione nelle fabbriche è fortissima, davanti ai cancelli gli studenti protestano con gli operai allo slogan: la Fiat è la nostra università. Per rispondere al clima di tensione crescente, il senatore socialista Tristano Codignola estrapola due articoli dalla riforma universitaria in discussione e fa approvare la legge n.910, come provvedimenti urgenti per l’università, in attesa della riforma universitaria. Le legge Codignola  dell’11 dicembre 1969, permette di individualizzare i piani di studi fino ad allora estremamente rigidi e soprattutto liberalizza l’accesso alle facoltà universitarie indistintamente, con qualsiasi diploma ottenuto dopo un corso di studi di cinque anni.     

 

Paolo Mieli: Ludovica Filieri ho guardato con attenzione questo filmato e mi sembra di aver capito tutto. Mentre il mondo politico comincia a lanciarsi all’inseguimento del tema universitario, gli studenti si sono già spostati e stanno andando all’abbraccio con i loro coetanei operai, fondono queste due esperienze.  

Ludovica Filieri: Sì dunque, le contestazioni studentesche abbracciano tematiche ed obiettivi delle contestazioni studentesche di altri paesi occidentali quali l’egualitarismo ed antimperialismo. In Italia però assumono delle componenti ideologiche di stampo marxista e rivoluzionario. Infatti questi stessi movimenti nati insieme ai movimenti operai perseguono una lotta contro quello che era il sistema capitalistico e borghese, opponendo appunto questa forte componente ideologica e rivoluzionaria.

Paolo Mieli: Chiarissimo. I cattolici accendono il fiammifero e gli studenti poi se ne vanno direttamente in braccio agli operai, dell’università, qua la voglio, non importa più niente a nessuno. 

Simonetta Soldani: Beh!!!  Interessa, esagerato, però non c’è dubbio che diventa la contestazione dell’università , non la riforma dell’università che è il tema. Sono due cose diverse. Teniamo conto però che c’è una base culturale dell’università straordinariamente rigida. Voglio dire non c’è una Facoltà di Architettura che apra ad  Urbanistica, in tutta l’Italia, non c’è Storia contemporanea neanche a pagarla oro, in nessuna Facoltà di Lettere. Non c’è Medicina del Lavoro a Medicina. Cioè, l’Università italiana, anche di buon livello, di ottimo livello.

Paolo Mieli: Beh!!! A quello doveva servire una riforma.

Simonetta Soldani: Ma la riforma richiesta degli studenti, non sono tanto interessati al 3+2+5 e così via, ma sono interessati ad avere un luogo nel quale  possono imparare a  capire il mondo che li circonda.

Paolo Mieli: Ho visto nel filmato c’è un uomo che un po’ intercetta lo spirito dei tempi, si chiama Tristiano Codignola ed è socialista.

Valentina Pagano: Sì e interviene con questa riforma, appunto la n. 910, all’interno della quale cerca di andare incontro alle necessità degli studenti, quali in particolare la flessibilizzazione dei piani di studio, una  facilitazione all’ottenimento  della laurea in quel caso. Tuttavia quello che viene successivamente criticato di questa riforma, è che non è stata accompagnata da una modifica strutturale dell’università.

Paolo Mieli: Non è poco quello che lei osserva. Cominciano i provvedimenti non organici.  

Simonetta Soldani: Sono tutti provvedimenti urgenti quelli che saranno approvati. Da questo punto di vista anche la riforma Codignola, probabilmente Codignola sperava di rendere ingovernabile la situazione e di fare approvare la riforma. Siccome la riforma non viene, poi alla fine questo si traduce in una disarticolazione dell’università perché rimangono le strutture burocratiche centralistiche ed autoritarie, in più c’è questo accesso libero  a tutti e con qualunque piano di studi che rende complicata la vita.

Paolo Mieli: Luca Marchetti, fra le cose che ha detto prima la professoressa, una mi ha colpito: Trento. La Facoltà di Sociologia di Trento, come “patria”, diciamo così della contestazione, di che stiamo parlando?

Luca Marchetti: Sì, la Facoltà di Sociologia di Trento fu in qualche modo la culla del movimento studentesco, la facoltà fu la prima, nella storia italiana,  ad essere occupata; gli studenti protestavano  contro al fatto che  la facoltà fosse accorpata a scienze politiche, invece loro rivendicavano l’autonomia di sociologia. In più in  quell’ambiente, cattolico, pacifista ed  egualitario, si formò attivamente un’effervescenza politica che in qualche modo diede vita anche a delle figure che segnarono la storia politica italiana successiva, come Rostagno e Boato e soprattutto Curcio e la Cagol. 

Paolo Mieli: Quindi hai nominato due, che sarebbero stati due dirigenti di Lotta Continua ed altri due, che sarebbero diventati dirigenti delle Brigate Rosse.

Simonetta Soldani: Questo anticipa in qualche misura anche tutta una serie di eventi e di movimenti lontani dall’università che avranno però le loro radici dentro l’università

Paolo Mieli: Quindi allora vuol dire che dell’università non gliene importa più niente?   

Simonetta Soldani: No!!! Si tengono insieme le cose all’inizio, infatti all’inizio le riforme specifiche, le riforme che chiedono meno tasse, che richiedono anche cosa banali, ad esempio guardi alla Cattolica le ragazze non potevano andare nemmeno d’estate con le braccia scoperte, nelle biblioteche non si poteva stare a sedere l’uno accanto all’altro, maschi e femmine. Insomma, c’è una risposta non soltanto da parte del Parlamento, non soltanto delle forze politiche, ma direi delle istituzioni, che addirittura è repressione. Perché non ci dobbiamo dimenticare che l’unica cosa che vien fatta è sempre il mandare la polizia e questo non è buon sistema neanche per valorizzare l’università. Perché è come se l’università, perde autonomia, no? 

Paolo Mieli: Questo è innegabile. Allora la porto nel terzo ed ultimo capitolo. L’università non è più un’istituzione d’èlite e nuovi soggetti sociali che si affacciano: le donne, gli studenti lavoratori ed i giovani docenti precari.

Commentatrice 3° video-capitolo: L’università di massa: Nell’anno che segue la legge Codignola le immatricolazioni hanno un’impennata. Nel 1970 i nuovi iscritti sono 173.000, il 25% in più rispetto all’anno precedente. Poi la crescita è più lenta ma costante. Alle soglie degli anni  ’80 gli iscritti all’università superano il milione, ma l’aumento del numero degli studenti non è la sola novità dell’università degli anni ’70. A cambiare è la composizione della popolazione studentesca, aumenta la presenza dei ceti meno abbienti, degli studenti lavoratori e della componente femminile. L’università non è più un’istituzione esclusiva. Le dimensioni, la diversità delle origini sociali  di chi la frequenta e  le specializzazioni possibili ne hanno drasticamente ridotto l’antica omogeneità interna. L’aumento di laureati non corrisponde però alle possibilità di assorbimento del sistema produttivo. La disoccupazione intellettuale è un fenomeno del tutto inatteso per chi credeva che il titolo universitario desse automatico accesso a ruoli occupazionali direttivi, specie tra studenti provenienti dagli istituti tecnici e da famiglie a basso tenore economico e culturale,  cresce il numero degli studenti fuori corso e degli abbandoni. Nella nuova università di massa, seppure non più formalizzata dalle istituzioni, rimane una forte selettività sociale. Con il governo Andreotti ed Oscar Luigi Scalfaro, ministro della pubblica istruzione, il progetto della legge 612 viene definitivamente accantonato. Per i tanti docenti precari la possibilità di una stabilizzazione arriva con i provvedimenti urgenti del 1973, ma altre migliaia ne vengono creati dalle stesse disposizioni. Anche il numero degli atenei si moltiplica, a metà anni ’70 al Senato giacciono diversi progetti di legge per 21 sedi universitarie, da statalizzare, riconoscere o creare ex novo in  13 regioni italiane ed altrettanti alla Camera. Un quadro caotico paradossalmente contrario  alle leggi in vigore  che sospendono il riconoscimento di nuove università. Un  piano da 550 miliardi per l’edilizia universitaria è varata nel 1976 per tamponare l’ingovernabilità nell’espansione del sistema universitario nazionale. Dal 1974 al 1978 si torna a ridiscutere  in un clima di  disinteresse e disillusione  di un disegno di legge che riprenda l’essenziale della legge 612. Neppure il movimento che nel 1977 scuote l’università ed il paese sembra interessato al tema. A prenderne parte sono studenti proletarizzati, non garantiti, estranei all’università come al mondo del lavoro. Anche se di forte impatto emotivo rimane un episodio circoscritto alle grandi città. Alla fine degli anni ’70, di fatto,  tutti rinunciano all’idea di una riforma complessiva dell’università.

Paolo Mieli: Ludovica Filieri,  però è innegabile che quando l’università si estende, diventa di massa, il livello complessivo si abbassa. Gli studenti sono meno preparati anche meno interessati alla materia e vanno lì ad inseguire un titolo di studio.

Ludovica Filieri: Sì nonostante ci sia questo incremento sia degli iscritti sia dei professori, in realtà ciò produce un effetto contrario. La qualità si abbassa sia per la docenza sia anche per un l’assenteismo a livello universitario. Quello che era un sogno o l’aspettativa di speranza per le famiglie che iscrivevano i figli all’università per un futuro garantito anche dal punto di vista lavorativo trovano delle difficoltà per l’impiego.

 Paolo Mieli: Profesoressa è così?  Prima domanda, secondo era stato messo nel conto?

Simonetta Soldani: Direi che va un po' articolato il discorso, perché non c’è dubbio che per esempio  l’aumento dei docenti non segue l’aumento degli allievi, il che vuol dire che una persona a  dover parlare, insegnare fare esami, discutere con centinaia di persone. Cosa che non succedeva nei prima anni’60. Questo rende difficile effettivamente. Io direi che in tutti i casi si abbassa la media, ma rimangono  non soltanto delle eccellenze, io ricordo bene anche nelle altre facoltà il livello della fascia alta è maggiore, è superiore, perché è più attento, è più vigile, più capace di spirito critico nei confronti dell’esistente, meno passivo. 

Paolo Mieli: Io ricordo bene, dice la professoressa Soldani, ci sarà una cosa  che ricorderà ancora di più.  Ne parliamo con Valentina Pagano. Il ’68 era stato prevalentemente maschile, gli anni ’70 all’università diventano femminili, sono le donne a crescere a prendere la leadership ed anche guidare poi il movimento femminista.

Valentina Pagano: Sì potremmo dire che in quegli anni in realtà inizia una rivolta concentrica rispetto a quella più ampia, nella quale le donne iniziano ad avere voce. Quindi sebbene nei movimenti studenteschi talvolta avessero  dei ruoli marginali, successivamente questo sembra aprire un canale, per quelle che saranno le successive riforme; per esempio quelle sul divorzio, quelle sull’aborto e quindi una maggiore soggettivizzazione per non avere un’eguaglianza solamente  formale, ma anche sociale.

Paolo Mieli: Qui professoressa la invito a separare la sua testimonianza privata che va accantonata e ci parli solo da studiosa.

Simonetta Soldani: Parlo solo da studiosa. Il numero di studentesse aumenta ancora di più, che non gli studenti già negli anni ’60. Pensi che  quintuplica  il numero percentuale  di  donne che d quell’età vanno all’università. Tra il ’61 ed il ’69.

Paolo Mieli: Come mai?

Simonetta Soldani: Perché c’è una spinta, come posso dire, sociale, culturale a far finalmente studiare anche le figlie e non soltanto i figli. Perché tra l’altro la percentuale di donne che vengono da famiglie di lavora tori dipendenti, quasi triplica. Finalmente non sono più solo le figlie della buona borghesia, sono anche figlie di lavoratori impiegati, non è detto che siano operai, ma insomma di piccoli negozianti che vanno finalmente all’università. C’è un problema. Entrano pure le studentesse e le docenti?  Perché invece le docenti all’alba degli anni ’70 sono veramente pochissime.

Paolo Mieli: E quando cambierà?

Simonetta Soldani: Comincia a cambiare negli ultimi anni ’70. Paradossalmente cambierà abbastanza con la 382 del 1980, perché permetterà di entrare a donne che erano state fino ad allora precarie, assegniste, corsiste, assistenti volontarie non pagate, addette alle esercitazioni e così via. Attraverso dei concorsi che sono dedicati anche a loro entrano in numero massiccio, da protagoniste.

Paolo Mieli: Adesso prima di passare ad un filmato molto interessante vorrei chiedere a Marchetti, perché nove anni dopo il ’68, il movimento del ’77, nasce sì nell’università, ma non si occupa di temi universitari o se ne occupa molto poco.

Luca Marchetti: Se ne occupa molto poco, perché i movimenti del ’77 sono molto violenti, non c’è una contestazione propositiva per cambiare l’università, c’è una contestazione contro tutto l’esistente. Per questo la legge 382 che citava la professoressa, che è una riforma importante, che in qualche modo chiude questo ciclo di riforme, viene fatto praticamente senza un vero dialogo con il mondo universitario.

Simonetta Soldani: Abbattiamo l’università era la parola d’ordine   nel ’77, non era riformiamo l’università, quindi voglio dire è qualcosa di assai diverso. In tutto questo però l’università si è trasformata nel numero e nel tipo di facoltà, nelle discipline che insegna, nei rapporti con i docenti. I docenti stessi sono un’altra cosa rispetto ai professori dei primi anni ’60, anche quelli che sono ordinari, sono un’altra generazione, sono persone che sono venute fuori anche loro dalla fine degli anni’60 e degli anni ’70. E’ importante ricordarlo, perché i rapporti, ma anche la tipologia di lezione; pensiamo a quanta influenza hanno i contro-corsi  per spingere verso quelli che venivano chiamati i seminari, la possibilità del dialogo  di far sentire gli studenti parte attiva.

Paolo Mieli: A proposito di quello che lei sta dicendo posso far vedere un filmato. Il 15 Dicembre del 1972 s’ inaugurano i corsi della nuova Università di Calabria, un caso anomalo di nuova sede universitaria nata dalla legge del 1968. La Rai in quell’occasione andò ad intervistare i primi docenti e studenti e vediamo che sono docenti e studenti di tipo nuovo. 

Dal filmato:

Che tipo di studio avete fatto prima dell’università? Geometra, io meccanico.

Tuo padre cosa fa? Mio padre è un impiegato nell’Esso, guardiano, coltivatore diretto, contadino.

Che cosa dovrebbe caratterizzare questa nuova università? La residenzialità, cioè il tentativo di formare una comunità di studenti e docenti  collegata all’università. Quando scelsi di andare al geometra per  diplomarmi lo feci con pura cognizione di causa perché pensavo di non dovere andare all’università non avendone la possibilità. Poi invece ho deciso tutt’altro.  Esco dall’Istituto Tecnico Industriale di Cosenza dal ’69 in poi un po' ho lavorato. Ho fatto delle supplenze. Poi si è aperta l’università e mi sono iscritto.

Cioè lei non avrebbe fatto l’università  se non si apriva questa di Cosenza? Sì perché non c’erano mezzi a casa per mantenermi fuori.

Paolo Mieli: Clamoroso professoressa Soldani, nasce un’università di tipo anglosassone con campus,  giovani insegnanti gli studenti quasi coetanei e dove nasce? In Calabria.

Simonetta Soldani: Dove non  c’era mai stata un’università. Dove peraltro in quegli anni c’è una situazione sociale e politica molto grave. Però lasciatemi dire che dà il senso della ricchezza nuova che entra nell’università con queste riforme a pezzettini, peraltro non toccano mai quello che è un aspetto fondamentale cioè l’uniformità italiana, la centralizzazione italiana. Cioè queste norme, anche come provvedimenti urgenti non toccano mai quello che è lo scheletro l’ossatura fondamentale 

Paolo Mieli: ma non lo toccano per il ritardo. Se quella riforma ci fossa stata prima del ’68, la storia sarebbe andata diversamente.

Simonetta Soldani: Non c’è dubbio. Si è toccato anche la struttura che agli studenti non interessava, perché voglio dire, sono questioni di tipo istituzionale che sono le più difficili.

 Paolo Mieli:  Basta ci ha detto davvero tutto a lei non chiedo i tre libri, però se proprio ce li vuol dire.

Simonetta Soldani: Non ci sono dei testi che mi abbiano completamente soddisfatto. C’è un bel testo di Luciano Governali-L’Università nei primi quarant’anni della Repubblica Italiana 1946-1986 (Il Mulino 2019), che riguarda la nascita dell’università italiana nei primi quarant’anni della repubblica che è forse il più completo, il secondo libro Alessandro Breccia-Le istituzioni universitarie e il sessantotto - Clueb 2013,   che è un altro testo recente del 2013, il terzo è un bel saggio di un sociologo, che sono quelli che hanno studiato meglio per ora questi problemi e che riguarda la società di massa, all’interno di due volumi di cui sono anch’io curatrice Fare gli italiani-Scuola e Cultura nell’Italia Contemporanea Vol.II a cura di S. Soldani e G.Turi-Il Mulino 1993.                      

Paolo Mieli:  Simonetta Soldani c’ha detto tutto dell’importanza che ebbe Luigi Gui, Ministro della Pubblica Istruzione negli anni ’60, per la precisione dal 1962 al 1968. A Gui si deve la scuola media unica, quell’iscrizione obbligatoria fino a 14 anni, cioè le premesse per quell’università di massa di cui abbiamo parlato e nel ’68 però Gui incontrò l’ostilità degli studenti che erano contrari alla legge 2314, la sua legge di riforma. Per non avere problemi con i movimenti studenteschi la DC, il suo partito di riferimento, lo spostò dalla Pubblica Istruzione alla Difesa. Se vogliamo un ministero più importante, ma per Gui fu l’inizio di una serie di disgrazie, perché come ministro della Difesa fu accusato nel 1976 di aver favorito tangenti nello scandalo Lockheed, per la vendita di arei C130 all’Italia. Poi venne processato dalla Corte Costituzionale in quanto Ministro e viene assolto in tutti i modi. Ma nello stesso momento si è ritirato dalla politica e Gui nonostante il grande livello di statista democristiano, vivrà altri 34 anni, fino al 2010 lontano dalla scena politica.  

https://www.raiplay.it/video/2019/12/Passato-e-Presente---La-nascita-dellUniversita-di-massa-8a507f5b-ed39-4f81-a39a-40d8a5feaba9.html

 

 

Da Architetti-Società (Rivista trimestrale dell’Ordine degli Architetti di Napoli ed Isernia)

Anno II –Numero 1    Gennaio-Marzo 1990

 Viaggio nella Facoltà di Architettura  di Francesco Cassano

Il clima di fermento e di discussione che si è aperto nel mondo dell'Università italiana e, più in generale nel mondo della Scuola, a seguito dell’inatteso clima di contestazione scoppiato in questo primo scorcio del '90,  nei confronti del disegno di legge Ruberti e successivamente dilagato su tutte le disfunzioni e le contraddizioni legate al funzionamento dell’Università e della Scuola in Italia, ha riversato sull’opinione pubblica sulla stampa e sulla politica gli ormai incancreniti e molteplici problemi vissuti sulla pelle di chi opera ai vari livelli e con diversi ruoli all'interno di queste importanti istituzioni.

Questo stato di profondo disagio esistente nelle Università italiane ed in  particolare, per quel che ci riguarda, nelle Facoltà di architettura, dove più, che altrove questo stato di malessere è palpabile, sia in riferimento agli innumerevoli problemi pregressi sorti con l’approvazione nel 1980 della 382 (la legge attualmente vigente), sia rispetto a quelli nuovi emersi nella discussione a seguito del disegno di Legge Ruberti, non poteva non coinvolgere gli Ordini Professionali di categoria, che da qualche anno in qua, abbandonando la oramai obsoleta visione meramente corporativa, questo vale almeno per l’Ordine di Napoli, sono assolutamente disponibili a collaborare ed a misurarsi su ogni questione, con chiunque ed in tutte le sedi affinché con il contributo serio e fattivo di tutti gli operatori, forze politiche e sindacali, studenti si possa avviare a buon fine un processo di rilancio e di riqualificazione complessiva della Scuola e dell'Università tali da metterle nella condizione di competere al pari delle altre nazioni  europee anche alla luce degli scenari che si presenteranno con la  liberizzazione del mercato del '92 e nella fattispecie in riferimento al problema della concorrenza delle professionalità vecchie e nuove che si innescherà a seguito di questo storico appuntamento.

In questa direzione ci è sembrato utile chiedere ai diretti interessati: docenti e studenti e ad un autorevole rappresentante del mondo sindacale un contributo scritto sui problemi sopra menzionati. Nel mentre noi come Ordine professionale di categoria siamo fortemente interessati a sviluppare un positivo e continuativo rapporto di lavoro con la Facoltà di Architettura di Napoli al fine di creare tutte le condizioni favorevoli dentro l'Università e nel mondo del lavoro nel tentativo di  poter delineare una figura professionale sempre più qualificata e capace di dare in ogni occasione di lavoro un contributo elevato di competenze tecniche e di sensibilità culturali di fronte ai complessi e delicati temi della salvaguardia e della trasformazione dell'ambiente A tal proposito bisogna

spingere per una rapida e positiva conclusione della Commissione mista Ordine-Facoltà di Architettura, insediata già da alcuni mesi, che arrivi a formulare un protocollo d’intesa che consenta all'Ordine di categoria di seguito, ed affrontare tutti i problemi aperti, e, fra questi, gli esami di stato, che rappresentano sicuramente il problema più vecchio e più urgente da affrontare e risolvere, così è necessario discutere sul problema della laurea corta, il cosiddetto diploma di laurea, previsto dal disegno di Legge Ruberti, per gli innumerevoli problemi che esso solleverebbe, qualora venisse approvato, sia dentro le Facoltà di Architettura sia in riferimento alla sua collocazione sul mercato del lavoro professionale. Inoltre siamo fortemente interessati a lavorare su iniziative congiunte a carattere culturale finalizzate ad accrescere il livello conoscitivo e una maggiore sensibilità estetica, soprattutto delle giovani generazioni, alla luce anche delle nuove responsabilità che ci investono con riconoscimento a livello di Comunità Europea della figura di Architetto quale unico operatore del territorio.

 Intervengono: 

Da Architetti-Società (Rivista trimestrale dell’Ordine degli Architetti di Napoli ed Isernia)  Anno II –Numero 1    Gennaio-Marzo 1990

Per una Università moderna di Italo Ferraro (Docente Associato della Facoltà di Architettura di Napoli)

I Professori di II° fascia - Il ministro Ruberti, di fronte alla contestazione studentesca, ha ripetutamente ammesso che vi sono nell'Università “… inadeguatezza delle strutture, carenza di servizi, disfunzioni amministrative”, e che è inutile negarlo. Ha aggiunto però, nella stessa intervista, che “…. risulta meno comprensibile che l’insoddisfazione per la situazione presente venga correlata alle leggi future “. Vorrei dire al signor ministro, con il suo stesso candore, che questo è proprio ciò che spiega la situazione italiana e che rende difficile per il movimento degli studenti chiedere particolari modifiche alla riforma.

La storia di questi venti anni ha mostrato in maniera inequivocabile che le leggi di riforma universitarie, ma in genere tutte le riforme settoriali (si pensi al disastro della riforma sanitaria) non hanno mai risolto i disagi chiarissimi delle situazioni di partenza ma li hanno spesso aggravati.  Questo perché, nonostante l'evidenza del dato quantitativo, cioè una crescente richiesta di servizi, e di miglioramento continuo, di adeguamento sistematico, della loro qualità, proprio di una moderna società dei consumi, si è di fatto disatteso al carattere di massa che l'università andava assumendo, respingendolo come motivazione primaria e punto di riferimento rispetto al quale rendere adeguate le strutture, risolvere le carenze di servizi, eliminare le disfunzioni amministrative. La battaglia per una Università moderna, per una società in espansione si è persa molti anni fa: si è persa con la sconfitta sul ruolo del docente unico vanificato dalle tre fasce di ordinari, associati e ricercatori. Una scelta che tra gli anni '60 e '70 stabilizzò nei loro ruoli preesistenti tutti quelli che già lavoravano nell'Università, bloccando gli accessi. Il ruolo incontrastato e accentrato degli ordinari si accentuò e cristallizzò con l'aggravante che il cattivo funzionamento dell’Università veniva attribuito al grande numero di studenti e si cominciava a invocare il numero chiuso.   Come dire che la causa del cattivo funzionamento della Sanità è l'alto numero dei malati.   Questo parallelo può andare oltre: tendenzialmente nelle cariche elettive il professore ordinario è diventato come un presidente di USL, sempre meno legato alla pratica dell’insegnamento e della ricerca e per questo sempre più cinico e straniato nel gestire l'università come una macchina burocratica. Maestri ancora solo di lottizzazioni, ingegneri di un meccanismo non diretto al funzionamento nell'Università verso gli studenti fruitori del servizio, né verso la società, ma tautologicamente rivolto solo alla continua riorganizzazione di una struttura di potere. E in questo quadro e in una totale e motivata sfiducia verso “le leggi future” che ritengo prioritaria la questione della quantità. Innanzitutto per il reclutamento dei docenti sono con Domenico Silvestri convinto che Ricercatori e Professori non hanno bisogno di rigidi steccati da saltare in virtù di miracolistici concorsi, ma di un giusto reclutamento e di una controllata progressione di carriera. Il punto di partenza non può essere che una estesa moltiplicazione delle strutture universitarie: uomini, spazi, attrezzature.

L'adeguamento per il '92 all'apertura delle frontiere, unica motivazione della legge Ruberti, e prima di tutto in questo. La questione della democrazia è oggi, in questa moltiplicazione, che deve essere esagerata.  I venti anni che ci separano dal ‘68 sono stati di democrazia parlata e mai praticata: intere generazioni sono state saltate e l'Università è oggi retta da una generazione di ordinari che non avendo prospettive di ricambio, ha un potere immenso e vuoto, tautologico. L'Università e totalmente isolata nel paese.

Moltiplichiamo le sedi, riproponiamo il docente unico promuovendo sul campo, in alternativa allo scandalo di concorsi totalmente privi di garanzie, con giudizi di idoneità sulla produzione in carriera e sul servizio svolto, gli associati, i ricercatori, le varie fasce del precariato. Una Università di massa e democratica deve essere gestita da una grande quantità di docenti democratici che deve rinnovarsi continuamente e non da un gruppo di burocrati accentratori. Molte sedi, molte aule e spazi per la ricerca, molti docenti nel rapporto massimo, nella pratica reale, di un docente per ogni 20/30 studenti, abolizione dei corsi non frequenti, molti piccoli dipartimenti fortemente caratterizzati da programmi di ricerca, ampio spettro di caratterizzazione di rapporti ricerca-didattica sbocchi professionali in alternativa alla creazione di nuovi indirizzi solo allo scopo di creare nuovi ed inutili strutture burocratiche.

Una Università viva perché corrispondente alla pratica multiforme di una società dei consumi che non voglia rinunciare a controllare il suo pensiero e a progettare sempre il suo futuro spesso finalizzandolo, altrettanto spesso ricercando al solo scopo di “saperne di più”.   Molti fondi: grande impegno dello Stato per questa Università democratica e di  massa. Io ho capito che gli studenti vogliono soprattutto questo: tornare a credere in uno Stato che si fa carico dell'Università e non si defila appaltando il servizio ai privati».  Se è difficile reperire i fondi lo Stato può istituire una tassa per l'Università e la ricerca a carico degli industriali e degli imprenditori che così indirettamente concorreranno allo sviluppo dell”autonomia dell'Università.

Da Architetti-Società (Rivista trimestrale dell’Ordine degli Architetti di Napoli ed Isernia)  Anno II –Numero 1    Gennaio-Marzo 1990

 Occasionali provvedimenti di Mario Coletta (Docente ordinario della Facoltà di Architettura)

 I PROFESSORI DI I° FASCIA:  Una riflessione sui problemi dell'Università in generale e delle facoltà di Architettura in particolare ci è stimolata più che dalle agitazioni oggi in atto, dalle relazioni che insistono al contorno dell'area alle quali l'area stessa non riesce a fornire quella risposta “uguale e contraria” atta a garantire una situazione di equilibrio.  Per relazioni esterne intendiamo, nella sua globalità, la domanda sociale. Questa costituisce una costante di riferimento per tutte le categorie professionali, alla quale chiede non solo capacità ed efficienza ma anche cultura. Sono i tre parametri che informano, simultaneamente la “preparazione“ che qualsiasi tipo di scuola è predisposta a fornire.

Abbandonando i termini astratti dell’autonomia, delle ideologie (ieri esaltate oggi rinnegate e troppo spicciolatamente liquidate e contraddittoriamente riproposte dalle agitazioni in corso) e della “democraticità” dei rapporti interscolastici ed intersociali nei quali si improntarono le disquisizioni assembleari delle facoltà occupate, e ritornando nella concretezza dello spazio operativo, non possiamo che esprimerci attraverso la elencazione dei malesseri e dei disagi che affliggono in parallelo e, direi conseguenzialmente, il processo di fondazione ed il contesto del lavoro.

Ma più che l'elencazione dei disagi giova rimontare alle cause che li hanno prodotti e che li mantengono in vita; e cioè all’apparato legislativo che nelle sue dizioni o nelle sue molteplici e troppo spesso limitate e contraddittorie interpretazioni, ne interdicono il superamento, sfociando nel labirinto delle crisi. E l'Università diventa per molti una stazione di arrivo, oltre la quale non riesce a profilarsi che il buio d'una società recintata ed inaccessibile; per alcuni diviene una stazione di sosta, atta a garantire una non espressa domanda di parcheggio, e solo per pochi una stazione di servizio con differenziati coefficienti di funzionamento dipendenti da fattori meramente geografici più che da capacita imprenditoriale.

Oltre la siepe, c'è, per questi ultimi una società fatta di apparati pubblici o privati che si trasforma in committenza ed ai più “fortunati” (quelli che riescono a garantirsene l'accesso) chiede quelle competenze, quella professionalità e quella cultura, che si presuppone abbiano acquisito nell'interno universitario.

L'approssimazione della risposta è letta nella configurazione dell'ambiente architettonico ed urbanistico che ne costituisce alla risultanza e questo legittima l'Ordine professione a porsi interrogativi circa i processi di formazione e più esplicitamente circa l’organizzazione della struttura universitaria che è deputata a promuoverli.

L'Ordine professionale ha oggi un solo contatto con la struttura universitaria e questo avviene tramite l'Esame di Stato, a formazione cioè avvenuta, a laurea conseguita. I disastrosi risultati degli esami di Stato dovrebbero costituire la prima fondamentale spia per rivisitare l'intero iter formativo dell'architetto, anche di quello della terza categoria (della stazione di servizio) che registra su questo terreno la prima frustrante sconfitta.

Ciò significa apportare modifiche anche sostanziali al funzionamento delle strutture universitari che, nel corso dell'ultimo ventennio, sotto la spinta di leggi di emergenza, mortificando la didattica e certamente non esaltando la ricerca, ha procurato macroscopici quanto imprevedibili danni al sociale.

Con atteggiamento irresponsabilmente demagogico, equivocando sulla legittima domanda di lievitazione del diritto allo studio, si è fatto passare la liberalizzazione degli accessi all'Università come elemento garante della   “cultura di massa”, un “traguardo” in luogo della “ partenza”, sicché l'apertura, a tutti effetti, e diventata chiusura. Come c'era da aspettarsi la quantità ha sconfitto la qualità.

 La valanga di studenti, provenienti da ogni indirizzo della scuola media superiore, ha invaso le sedi universitarie andando ben oltre la saturazione degli spazi e delle attrezzature disponibili.

La facoltà di architettura, nel corso di un biennio hanno decuplicato i propri iscritti, la crescita delle iscrizioni negli anni successivi ha proceduto con ritmo incalzante sino a registrare due successive decuplicazioni, e ciò ha alterato sia i meccanismi ,funzionamento delle strutture universitarie la cui lievitazione è risultata parallelamente irrisoria, sia l'accesso al lavoro nelle aree più deboli del nostro Paese, non essendosi prefigurata (e forse non essendo agevolmente prefigurabile) una programmazione che coniugasse formazione ed attività professionale.

Carenze di spazi, di tempi, e di personale soprattutto docente hanno sconvolto il fare didattica, riservando spazi irrisori al fare ricerca. La mancanza di aule ha legittimato la non obbligatorietà della frequenza, così come la forzata eliminazione dell'assistentato ha compromesso la parte più delicata della formazione: l'esercitazione progettuale.

Scomparsi i tavoli da disegno e persino le sede-scrittoio, le aule sono divenute aree di assiepamento incontrollabile, o, per contrasto, vuoti metafisici sui quali piovono lezioni teoriche destinate solo a raggiungere coloro che hanno avuto la buona sorte di frequentare una idonea scuola di istruzione secondaria.

Scomparsi i laboratori didattici le facoltà hanno persino smarrito il senso sociale della vita universitaria, e la partecipazione ad incontri seminariali (che peraltro si traducono in nuovi appuntamenti teorici) sembra essere inversamente proporzionale alla crescita delle iscrizioni.

Solo il “lavoro nero” tenta il recupero della manualità e dello stimolo alla qualificazione della progettualità; grazie ad un esercito di “anonimi” che arbitrando nelle sfere di influenza delle discipline compositive tecnologiche ed urbanistiche, attraverso incontri semi clandestini attivano negli spazi di  risulta (corridoi, terrazzi, cortili ecc.) incontri didattici con ogni tipo di allievi indirizzandoli e seguendoli nelle esperienze di analisi e di progettazione nell'illusoria speranza di uscire dal buio essi stessi e sortire un ufficiale riconoscimento.

 

Ancora misure di urgenza, a circa dieci anni dall’apertura delle dighe, condussero al “Riordino della docenza universitaria” come recita il decreto presidenziale dell'11 luglio 1980, più noto come la “382”.  

Con esso crollarono definitivamente  le speranze di quanti ancora riponevano fiducia nella “Struttura aperta” in quella che trionfalmente veniva fatta passare come “Università di massa”.

Il decreto portò un semplice e falso ordine ragionieristico alla struttura docente; all’insegna dello snellimento delle procedure riuscì a complicarle, garantendo ancora una volta più la chiusura che l'apertura.

Furono “regolamentati” per difetto gli accessi alla docenza universitaria, eliminando l’assistentato ordinario e le categorie di primo accesso (addetti alle esercitazioni ex assistenti volontari). All’insegna della lotta al “precariato” venivano interdetti i nuovi incarichi di docenza e limitate le docenze a contratto; gli stessi docenti stabilizzati, magari gravati da decenni di esperienza didattica, venivano assoggettati a mortificanti confronti concorsuali (addolciti dalla direzione di “giudizi di idoneità” i cui esiti spesso hanno tradito la frustrazione degli idonei giudicanti che modificano la dignità delle strutture accademiche che presidiano.

Tagliando l'assistentato e l'accesso per incarico alla docenza, eliminando il cosiddetto precariato e destabilizzando una parte della docenza stabilizzata, la legge faceva spazio a due figure di docenti: l'ordinario e l'associato, il cui incremento veniva cadenzato per anni e per intervalli concorsuali senza alcun rapporto alla lievitazione degli studenti.

La didattica veniva a perdere anche quelle frange intermedie del “precariato” recuperato alla ricerca (il primo accesso al ruolo di ricercatore è riservato agli assegnisti ed ai contrattisti), essendo stato reso facoltativo al “ricercatore” la mansione di didattica. I docenti associati ed ordinari diventano gli unici ufficiali interlocutori della didattica, spesse volte con un carico di due corsi, mediamente calibrati sulla iscrizione dei 250 allievi, da condursi in aule quasi sempre improprie (e quindi per niente attrezzate) la cui capienza può soddisfare un quinto della domanda.

l programma didattico è conseguentemente minimizzato, evirato della necessaria sperimentazione, delle esercitazioni e dei controlli; i confronti tra docente e discente si contraggono sino a ridursi all’unità e ad esaurirsi al  “giorno del giudizio”, con tutte le approssimazioni che ne conseguono. La didattica si separa abissalmente dalla ricerca ed il colloquio degenera nel soliloquio per quanto vivacizzata possa essere l'esibizione del conducente.

La carenza di spazi, di tempi e di personale docente e non, pesa anche sul processo di maturazione sociale dello studente, trasmettendogli il senso della rivalità e della conflittualità, più che quello della solidarietà e della fiducia in se stesso e negli altri.

La consapevolezza di una limitata preparazione professionale e di una ancora più modesta maturazione culturale, lo rende, a seconda dell'indole e delle circostanze, debole o aggressivo nei confronti del mercato del lavoro; in entrambi i casi il prodotto non può che essere negativo perché nasce dalla  sudditanza cieca e dal compromesso spregiudicato.

La qualità dell'ambiente si rapporta oggi più che nel passato alla qualità degli operatori che ne attivano le trasformazioni ed alla struttura preposta ai quadri di formazione.

 Il ciclo non si chiude se non introduciamo una nuova componente: la sensibilità dei politici e la loro volontà e capacità a predisporre l'adeguato funzionamento delle strutture specie di quelle la cui ricaduta sociale si prospetta di incommensurabile ampiezza.

Occorre non solo rivedere le smagliature del sistema formativo, culturale civile e professionale, e magari sarcirle con altri “occasionali provvedimenti” che tappando un vuoto ne aprono altri in una reazione a catena di imprevedibile portata.

Occorre rigerarchizzare l'intera struttura riverificando l'attualità degli obiettivi che sottendono la presente e modificando anche sostanzialmente la strategia della conduzione, magari invertendo la piramide: partendo cioè dagli studenti che sono la realtà del presente prima ancora che del futuro, con la quale occorre confrontarsi, rapportandosi al numero come nel rinnovo delle problematiche, nella didattica come nella ricerca e soprattutto in quei servizi complementari che risultano indispensabili allo sviluppo del senso sociale, siano essi sportivi, che culturali, ricreativi ed artistici, ormai sepolti nella memoria delle passate generazioni e che vanno riproposti per ricondurre nelle nostre sedi quel “piacere di vivere” irrinunciabile per ogni generazione.

Perché ciò avvenga occorre che lo stato spenda meglio e di più le sue disponibilità finanziarie, che le sappia socialmente investire, o, in alternativa, che sappia controllare gli altrui investimenti.

Non si può rinunciare all'irrinunciabile, né possono auspicarsi miracolistiche soluzioni ai problemi che non sono nati dal miracolo.

Gli accessi alle università vanno programmati non con gli sperimentati sistemi di chiusura (che sono negativi quanto l'apertura indiscriminata) ma con una chiarificazione di indirizzi da attivarsi in sede di modifica dei regolamenti dell'istruzione secondaria, ed in ragione dei possibili assorbimenti sul mercato del lavoro, locale, nazionale ed internazionale.

I percorsi vanno riprogettati spazialmente e tematícamente, dilatati in ragione dei flussi che li interessano e guidati secondo un rivisitato indirizzo gerarchico a garanzia della crescita nelle sue più globali significanze. Spazi, personale ed attrezzature adeguate costituiscono appunto il succitato “ irrinunciabile”, da cui partire per poi passare alla ridefinizione dei contenuti della formazione ed alle forme gestionali da attivare, sulle quali va finalmente riproposto il discorso delle “Autonomie” e delle “partecipazioni”  interne od esterne, pubbliche o private, che il disegno di legge Ruberti mette in pasto alle pantere asserragliate nei nostri atenei, aprendo un capitolo di difficile comprensione, visto che il libro, brutto o bello che sia, non può essere letto dall”ultima pagina alla prima.