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Intervista all’Arch. Luca GIBELLO (by Mario Mangone)

Intervista

all’Arch. Luca GIBELLO

Caporedattore del Giornale dell’Architettura

16 Settembre 2008-Torino

 

 

L’esperienza del “Giornale dell’Architettura” nasce a Torino con la Casa Editrice Allemandi, come costola del “Giornale dell’Arte”,  di cui invece già da venti anni la casa editrice, pubblicava mensilmente la rivista. Il “Giornale dell’Architettura”  è una scommessa che tenta di trasporre, sul piano dello specifico disciplinare per gli architetti, un formato che è quello dei tabloid all’inglese o dei quotidiani, con una suddivisione in sezioni che tentano di leggere l’architettura al di là, di quelle che sono le forme, gli aspetti formali, gli aspetti più superficiali che riguardono il mondo della progettazione. Quindi di capire quali sono gli attori che si occupano di trasformazione urbana, quali sono i processi, i meccanismi, che riguardano il mondo delle professioni,  dell’assegnazione dei concorsi, degli appalti.

E’ curioso  che un Giornale dell’Architettura nasca a Torino e non a Milano, dove invece un po’ è la culla  di tutte le riviste di architettura patinate, questo è invece un giornale di carta, è un giornale che riguarda, più che altro, le notizie  di cronaca, cercando di leggerle sotto una chiave interpretativa, che parte comunque sempre dai fatti e dalle posizioni dei vari attori coinvolti.

 

Il rapporto tra Torino e la globalità, tra Torino e la globalizzazione, all’interno dell’esperienza  del giornale è venuta fuori in maniera molto forte a partire dai primi numeri, abbiamo iniziato nel Novembre del 2002, fino ad oggi,con il n.66, che  stiamo preparando. Dicevo è venuto molto forte,  perché la redazione era un nucleo stretto di giovani legati al prof. Carlo Olmo, che è il Direttore del “Giornale dell’Architettura” e quindi tutti provenienti da una precisa scuola, che era la Facoltà di Architettura di Torino e quindi con una precisa visione, quasi tutti formati come storici dell’architettura ed attenti ad indagare, ripeto l’architettura, non subspecie formale, ma come esito di processi complessi. Poi il “Giornale dell’Architettura” si è evoluto ed ha immediatamente acquisito quella credibilità, che lo ha portato a confrontarsi con temi, magari non conosciutissimi, in campi sempre più differenti e soprattutto confrontarsi con persone che sono entrate in contatto, perché si sono interessate al modo con cui restituivamo i fatti, gli eventi e che quindi si sono anche proposte  come autori.

Questo è stato interessante ed anche problematico, come aspetto da affrontare, perché significava confrontarsi con persone che non conoscevamo, magari direttamente, che mandavano il proprio curriculum, delle proposte, con le quali dovevamo restaurare un rapporto;  poi in certi casi  si è mantenuto,  si è consolidato, è diventato un rapporto molto forte e curiosità vuole che alcuni di questi collaboratori, ancora oggi, non tutti noi della redazione, li conosciamo attraverso i volti, per cui li conosciamo attraverso un  nome, però nonostante questo loro hanno capito il modo che avevamo di lavorare e si sono adeguati attraverso una sorta di selezione naturale, mi verrebbe da dire, per cui chi non capiva la filosofia editoriale del giornale, automaticamente si autoescludeva.

Questo credo sia il rapporto più forte con l’esperienza tra locale e quindi la redazione,  fortemente radicata in un luogo e globale nel senso di apporti di contributi provenienti dall’esterno guardando una realtà, ripeto,  che  era quella non solo nazionale, ma anche internazionale.

 

In tutto questo si colloca la vicenda la parabola di Torino come città che, forse per i palcoscenici principali è conosciuta solo dal momento in cui si è avuto l’evento olimpico, in realtà aveva costruito una sua identità urbana da almeno una quindicina d’anni prima, da quando è stato messo a punto e cominciato a rendere  attivo il piano regolatore degli anni ’90 e che doveva fare i conti con il principale problema, di una città industriale, che industriale non era più. Credo che senza questa trasformazione, senza questo cambio di prospettiva la città non avrebbe potuto acquisire eventi quali le Olimpiadi, l’Anno Mondiale del Design, di cui siamo ancora protagonisti all’ interno ed il Congresso Mondiale degli Architetti.  Ricordava l’Arch. Riccardo Bedrone (Presidente dell’Ordine degli Architetti  di Torino), che quando andarono al Congresso  dell’Union International d’Architect nel 2002, il 22° penultimo congresso, il  21° a Berlino, proposero Torino perchè era il momento in cui i grandi cambiamenti erano in atto e si potevano cominciare a presentare e la candidatura di Torino venne accettata per questo motivo. Il  “Giornale dell’Architettura” essendo avvantaggiato, in quanto giocando in casa, non poteva sfruttare che  positivamente l’occasione, ma anche proficuamente.  Non era solo il problema di sfruttare una rendita di posizione, era invece il problema di travasare dentro la struttura di un Convegno Mondiale degli Architetti, l’esperienza accumulata ormai nei cinque anni e mezzo  precedenti, perché il  convegno era appunto nel Giugno del 2008. La formula che ci è sembrata più appropriata,  dopo averne discusso  con l’editore Allemandi, con il Direttore, con tutta la Redazione, è stato quello di travasare l’esperienza di un mensile in un giornale quotidiano bilingue, di  italiano-inglese, con l’inglese a dominare ovviamente, per non rimanere legati al provincialismo, visto che la quasi metà dei partecipanti era di provenienza estera, quindi un giornale bilingue che accompagnasse i congressisti durante i cinque giorni di permanenza a Torino agli incontri del congresso. L’esperienza per noi si è rivelata straordinaria, un’esperienza collettiva di tutta la Redazione costituita  Cristiana Chiorino, Laura Milan, Roberta Chionne in primis, e pochi altri;  perché poi è stato una cosa molto stretta da costruire, da produrre all’interno della redazione, con una rete di nostri altri redattori,  che andavano al congresso. Noi in realtà, il congresso tra l’altro, noi quattro, con Cristiana,Laura e con Roberta l’abbiamo vissuto qui in redazione ed avevamo i redattori che andavano, facevano reportage. I fotografi venivano la sera a portarci le foto da scegliere e pubblicare il giorno dopo, con tutte le emozioni, le tensioni legate alla produzione di un   giornale quotidiano, con le chiusure su cui non si poteva sgarrare  al di là della mezzanotte, mezzanotte ed un quarto, perché poi c’era tutta una macchina abbastanza articolata,  legata alla distribuzione del giornale, e quindi ci sembrava che il giornale quotidiano ci sembrava il miglior sistema per accompagnare il congresso.

Anche qui con un rapporto tra locale e globale, nel senso che il locale, o meglio il globale era il ragionare sui temi del congresso, ragionare in maniera non supina, non piatta, eravamo l’unico giornale del congresso, ma non eravamo il “giornale del congresso”, il giornale ufficiale, non eravamo il bollettino del congresso e quindi ragionare in maniera non supina ed essere autonomi significa essere pro ed anche contro,  i temi trattati, o meglio sul come venivano trattati, perché nessuno mette in dubbio che i temi, quali quelli della “democrazia urbana”, della “qualità ambientale”, della “partecipazione”, fossero temi secondari, assolutamente, però bisognava vedere anche come venivano trattati.

Il legame con il locale era poi da affiancare alle discussioni a alla presentazione dei programmi, ai protagonisti, con anticipazioni, con interviste, con abstract dei vari interventi dei big, era affiancare una presentazione della città di Torino in chiave abbastanza leggera, ma non gratuita; nel senso che  potevamo ben capire che gli architetti, che arrivavano a Torino, erano già stanchi nell’ascoltare tutto il giorno gli interventi ed allora abbiamo cercato di presentare la città per nuclei tematici, nel senso di tematizzati storicamente, per luoghi topici, che crediamo accattivanti, con una scrittura essenziale, sintetica, molto pregnante e con didascalie a volte anche divertenti, piccanti. Ad esempio c’era anche una pagina dedicata al "Nightlife”, non visto sub specie locale di divertimento, quindi come ci si diverte, ma come architetture degli interni, le più significative per gli  architetti, che sappiamo essere delle persone un po’ strane, quindi sempre alla ricerca delle ultime realizzazioni fatte dai loro colleghi.  

 

Tutto questo per noi è stato un’esperienza straordinaria, nella misura in cui si sono costruiti dei rapporti con altre realtà, ad esempio con un bravissimo editor del nostro cugino inglese dell’Art News Paper, che fa parte della nostra stessa Casa Editrice, un ragazzo che è venuto a fare tutto l’editing delle parti di inglese , dei testi in inglese; noi ovviamente potevamo leggere, ma non eravamo in grado di cambiare i titoli che rendessero la giusta forza all’articolo  ed anche questa è stata una esperienza molto entusiasmante nel confrontarsi,  sul diverso modo con cui una notizia può essere restituita, attraverso le sfumature dei titoli o dei sommari.

 

 

In tutto questo ritengo che l’architetto resterà forse il costruttore, il progettista della villa della sua fidanzata, di suo  fratello o dell’interior design del  negozio dei suoi amici, mi auguro di no. Questo filone continuerà ovviamente, ma la posizione, il ruolo dell’architetto si sta profondamente ri-disegnando.

Io penso che oltre a quello che abbiamo sentito al Congresso Mondiale degli Architetti, petizioni di principio, giustissime, inappellabili, nessuno può dire nulla contro la Carta che è stata votata alla fine, sulla necessità di non proseguire lo spreco del territorio, sulla necessità di non limitare  l’uso delle risorse. Io vorrei rispondere attraverso un caso ancora più attuale, nel senso di più immediato. Vengo dalla Biennale di Architettura di Venezia  aperta alcuni giorni fa e credo che la risposta che è stata data alla provocazione del Direttore  Aaron Betsky , da parte di molti degli architetti invitati, al fatto di andare oltre il costruire, che in se poteva essere anche una provocazione giusta, perché il problema è appunto di non metter solo quattro mattoni insieme. Però ho l’impressione che molti architetti non l’abbiano sfruttata, andando nella direzione del disimpegno, della gratuità, del capriccio che sconfina verso i campi dell’artisticità. Però qualche padiglione, qualche partecipazione nazionale invece  l’ha fatto, quindi    rispondendo a come l’architetto può muoversi sul territorio, inventandosi nuove professionalità. L’ha fatto gli Stati Uniti d’America, come leggiamo anche dalle recensioni della Biennale, molte di esse sono positive sugli Stati Uniti d’America e concordano sul fatto che hanno mostrato delle forme di progettualità, non dico inedite, ma senz’altro interessanti, dove l’architetto fungeva da mediatore, tra esigenze di una comunità che non era in grado di esprimere, di fare emergere con precisione le proprie necessità. Lui in qualche maniera le formalizzava, ma non per forza in un progetto fisico , ma semplicemente in un concetto che veniva passato all’ambiente politico, imprenditoriale o ancora tentava di risolvere i problemi legati all’abitazione d’emergenza, ai problemi posti dall’’uragano post Latrina,  a New Orleans e cosi via, o si inventava soluzioni per dare la possibilità di fruire il tempo libero a persone socialmente non agiatissime, con piscine galleggianti realizzate a New York, traghettate e spostabili attraverso un traghetto e quindi andando ad attraccare in vari porti delle città, a secondo dell’esigenza del  momento.

Ecco io credo che questo modo di lavorare, la tanto sbandierata spesso retoricamente sostenibilità, se significa coscienza dei problemi nel rispetto degli equilibri ecologici possa veramente  anche a livello progettuale, portare a dei risultati , che possa essere la casa a mille euro al metro quadro, come possa essere  il processo costruttivo, ma possono essere anche, ripeto, il processo dialogico in cui una comunità  riesce a far emergere le proprie esigenze.

 

 

Rispetto alla questione dei grandi eventi, ricordando in prospettiva futura anche all’impegno nostro non solo del “Giornale dell’Architettura” ma di Mondonapoli, nel costruire delle possibili relazioni a livello di dialogo, ma anche a livello di piattaforme di riflessione per prefigurare scenari nuovi, non si può non guardare agli eventi del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia ed all’Expo che tornerà e che sarà a Milano nel 2015. I grandi eventi funzionano nella misura in cui non restano episodi isolati, funzionano nella misura in cui stanno all’interno di una logica, di promozione urbana, di trasformazione urbana e territoriale,  ma anche nazionale,  e  su questo poi  vorrei  concludere, che ragionano per tempi lunghi e non da quando iniziamo un evento fino a quando si chiude. Appunto se Torino ha avuto queste chance di diventare scenario di determinati eventi, perché dietro c’era una precisa idea di città, una precisa ri-definizione della propria identità urbana. Il Giornale dell’Architettura l’ha già fatto, lo continuerà a fare, quasi a verificare a stare un po’ addosso per vedere come evolveranno queste situazioni per il 2011 a Torino, per il 2015 a Milano.

 

Bene, per il 2011, come la realtà del sud Italia,  può far parte delle celebrazioni, ovviamente non è assolutamente scartata e totalmente integrata, perché le celebrazioni del 2011 sono le celebrazioni dell’Unità d’Italia e quindi se esiste un’Italia unita, non deve essere per forza celebrata in punti specifici, ma deve esserci anche qui un piano, che non può essere solo quello dei grandi interventi,  al Palazzo del Cinema di Venezia, al recupero dal Palazzo del Lavoro a Torino, o che so io, ad altri interventi ben specifici. Deve essere un’occasione per innescare politiche di compartecipazione, ma politiche che riguardino la trasformazione del territorio, gli assetti del territorio, in una logica che è quella  della discussione per stabilire delle reti e forme di collaborazione, credo che in qualche misura come avevo provato a raccontare prima il “Giornale dell’Architettura” è in piccolissima parte un felice esempio di questa collaborazione tra reti, perché come ho detto abbiamo acquisito collaboratori, vari contatti attraverso, ovviamente, la rete informatica e questi contatti fungono da antenne, ma anche da scambio reciproco, perché non è solo il collaboratore che ci fornisce un articolo, spesso la sollecitazione parte dalla redazione che chiede al collaboratore , che cosa sta succedendo o di verificare sul posto l’esattezza di  una determinata notizia. Per cui l’auspicio è quello di andare in questa direzione maggiormente collaborativa a livello geografico, sociale, anche attraverso l’immaterialità dei contatti.